La vera forza della gentilezza

La vera forza della gentilezza

La pratica della gentilezza è ormai necessaria , non solo come antidoto all’odio diffuso, ma anche come risorsa per il nostro ben-essere, per costruire relazioni feconde, per migliorare efficienza e apprendimento negli studi e nella vita professionale. Ecco il mio intervento all’Aperitivo letterario del 12 novembre 2019 ispirati da La forza della gentilezza di Piero Ferrucci, Mondadori.

Genitori con il cuore

Perché parlare di gentilezza

La gentilezza, diceva Goethe è una catena che tiene uniti gli uomini. Nella sua accezione comune la gentilezza richiama la buona educazione: un insieme di gesti da Galateo che insegnavano i nostri nonni.

Ma questa è una visione riduttiva. Provate a ricordare che cosa avete provato l’ultima volta che qualcuno è stato gentile con voi. Sicuramente vi sarete sentiti visti, riconosciuti nel vostro valore e avrete provato gratitudine nei confronti di quella persona.

E viceversa, cosa avete provato l’ultima volta che siete stati voi gentili con qualcun altro? Il cuore probabilmente si è aperto ad uno stato di benessere e attenzione verso il mondo fuori e avrete percepito connessione con l’altro.

La gentilezza è un ingrediente essenziale per non sprecare il capitale di rapporti umani che possediamo. La gentilezza fa bene a chi la riceve, ma anche a chi la dona.

Anche la scienza ha confermato che le persone gentili stanno meglio e vivono più a lungo.

I teorici dell’evoluzione mostrano che il dna delle persone gentili ha grandi possibilità di riprodursi, mentre i neurologi riscontrano un’attività più intensa nel lobo posteriore superiore temporale del cervello degli altruisti. E il punto è proprio questo: il fatto stesso di essere gentili è il beneficio della gentilezza. E quindi le prove scientifiche potrebbero anche non essere necessarie, anche se legittimano un modello di riconoscimento delle nostre emozioni che ci aiuta a capire come siamo fatti.

Se la nostra natura è quella di essere aperti, disponibili e empatici verso gli altri, oppure no.

La falsa gentilezza

Per parlare di gentilezza dobbiamo sgomberare il campo da tutte le forme di falsa gentilezza.

Non è gentilezza una generosità calcolata, volta ad ottenere vantaggi dagli altri.

Non è gentilezza la manifestazione di rabbia nascosta e non espressa, mascherata falsamente: questo è ciò che gli psichiatri chiamano una “formazione reattiva” ovvero il vestito per contenuti inconsci inaccettabili e, per ciò, adattati.

Non è gentilezza la passività o debolezza, quella di manzoniana memoria del “vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro”.

La gentilezza è, invece, un insieme di qualità sinergiche che possono essere agite singolarmente, ma che hanno ancora più potere trasformativo se agite insieme.

Le qualità di cui ci parla Piero Ferrucci sono innocuità, appartenenza, contatto, fiducia, empatia, calore, gioia, fiducia, sincerità, pazienza, flessibilità, generosità, gratitudine, servizio. Dedicheremo un’attenzione particolare a Innocuità e Gratitudine, la prima perché spesso malintesa nell’accezione comune, la seconda perché è il modo più facile per essere felici.

Innocuità

Ahimsa paramo dharma, diceva Ghandi riferendosi al principio universale della non violenza, tradotto dal sanscrito come Non nuocere è la legge suprema.

Ahimsa è anche il primo degli Yama, le pratiche etiche, le cose da non fare per un sincero ricercatore spirituale che si avvicina allo Yoga integrale. Nella sua accezione di Innocuità, il non nuocere è una capacità di segno negativo, ma non passiva: innocuità è un comportamento attivo che esige un lavoro di autoregolazione e di concentrazione attenta. Richiede intelligenza, consapevolezza, padronanza di sé e bontà d’animo.

“L’innocuità – dice Ferrucci – è la risposta ad una domanda fondamentale che ognuno di noi più o meno consciamente si pone: qual è il mio atteggiamento verso ogni essere vivente: di competizione e confronto? Di giudizio e critica? Di sfruttamento o vittimismo? (…)di paura e sospetto? Oppure di supporto, amicizia, calore e collaborazione? Questa risposta giace nella profondità del nostro essere ed è lì che dobbiamo andarla a scoprire.Il nostro implicito atteggiamento verso gli altri ci accompagna sempre, condiziona i nostri rapporti con gli altri, colora la nostra vita”. Gratitudine

Passando alla gratitudine, siamo sempre colpiti dall’intensità emotiva e dalla bellezza di questo sentimento. Ma il sentimento è solo l’aspetto più visibile della gratitudine. In realtà essa è prima di tutto un’operazione della mente e consiste nel riconoscere valore a ciò che la vita ci offre.

Tutto è perfetto così com’è, dicono gli orientali, anche se adesso non comprendiamo.

“La gratitudine – dice Ferrucci – è per definizione antieroica. Non dipende da quanto io sono bravo o forte o speciale. Anzi è basata sulla mia mancanza e sulla mia capacità di chiedere aiuto. Se non nascondo a me stesso quanto sono vulnerabile e incompleto, allora posso ricevere il beneficio che la vita mi offre ed essere grato”.

Nella relazione, spesso perdiamo questa opportunità perché, per coglierla pienamente dobbiamo accettare ancora una volta di essere senza difese e che la nostra felicità possa dipendere da qualcun altro.

Allora perché la gentilezza è una qualità contro-corrente?

Adam Phillips, in un articolo pubblicato con Barbara Taylor su Internazionale (dicembre 2018) e prima ancora sul Guardian dice “Nella nostra immagine degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione.”

La gentilezza è rischiosa, perché abilita un paradigma di dipendenza dagli altri. Per essere gentili, dobbiamo essere in grado di farci carico carico della vulnerabilità degli altri, e quindi della nostra. E ciò, dice Philips è diventata un segno di fragilità.

La società moderna occidentale rifiuta questa verità fondamentale e mette l’indipendenza al di sopra di tutto. Per gran parte della storia occidentale la gentilezza è stata legata alla cristianità, che per secoli ha fatto da collante culturale, tenendo uniti gli individui di una società.

Ma dal cinquecento in poi il comandamento cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso” subisce la concorrenza dell’individualismo. Il Leviatano (1651) di Thomas Hobbes considera la generosità cristiana psicologicamente assurda. “Homo Homini Lupus” sostiene Hobbes: l’esistenza è una “guerra di tutti contro tutti”.

L’individualismo è un fenomeno recente, legate alle teorie sul capitalismo e visto come chiave di lettura della società moderna in opposizione al collettivismo. In realtà l’illuminismo, generalmente considerato l’origine dell’individualismo occidentale, difendeva le “inclinazioni sociali” contro gli “interessi privati”.

Anche se il sospetto più radicato nei confronti della gentilezza è che sia solo una forma di narcisismo camuffato, la gentilezza continua a esse­re un’esperienza di cui non riusciamo a fare a meno, sebbene il nostro sistema di valori contemporaneo, contribuisce a far sì che sembri utile in alcune circostanze, ma anche potenzialmente super­flua.

Conclusioni

Nella visione di molti cammini spirituali, ogni persona è tutti gli altri.

Così come in ogni cellula è contenuto il Dna dell’intero organismo, ogni individuo contiene in sé l’umanità intera.

Se siamo in grado di migliorare la vita di qualcun’altro e di accendere una luce nel suo cuore, questa è già una vittoria, una risposta umile e silenziosa alle sofferenze e ai disagi del nostro pianeta. “Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile” Dr Wayne W. Dyer

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Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 3

Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 3

La pratica del respiro consapevole (pranayama) può aiutarci, ad utilizzare meglio la nostra capacità polmonare e a ossigenare il cervello, ma anche a restare in uno stato di presenza, a regolare i flussi di energia e a mantenere l’attenzione focalizzata al raggiungimento dei nostri obiettivi. E molto altro ancora…

Genitori con il cuore

Il respiro è l’essenza della vita: si inspira non appena si viene alla luce e si espira, quando si chiudono gli occhi per l’ultima volta.

Quante volte ci capita durante la giornata di osservarci mentre respiriamo? Probabilmente poche.

Respirare è un atto involontario, ma possiamo renderlo consapevole.

Proviamo a farlo adesso. Mettiamoci in una posizione comoda, con la schiena dritta e chiudiamo gli occhi, concentrando la nostra attenzione sull’aria che entra dalle narici. Non dobbiamo fare nulla per modificare il respiro. Osserviamone semplicemente il flusso. In breve tempo diventerà più lento, come un filo sottile che ci pervade. Osserviamo ora le nostre sensazioni: il battito del cuore piano piano rallenta, le emozioni si placano e uno stato di serenità ci pervade. Oppure potremmo osservare una sensazione di disagio, se non siamo abituati a questo tipo di pratica. Non fa niente, Annotiamo mentalmente quel che succede, senza giudicare.

Dal punto di vista fisiologico, con il controllo del respiro si rende cosciente quel processo inconscio, che inizia nella parte primitiva del cervello (il tronco encefalico) posto alla sommità della spina dorsale e che stimola il diaframma, il principale muscolo responsabile della respirazione.

Il pranayama è l’insieme delle tecniche di regolazione di inspirazione, ritenzione (il periodo tra inspirazione ed espirazione) ed espirazione, attraverso le quali la forza vitale è attivata e regolata e costituisce una parte fondante della pratica yoga.

Infatti il termine sanscrito pranayama è composto da due parole: prana e ayama. Prana significa “forza vitale” e ayama significa “espansione”, quindi pranayama può essere tradotto letteralmente come ”espansione della forza vitale”.

Esistono diverse tecniche yogiche di respirazione che possono essere praticate per migliorare la capacità di regolare e dirigere il nostro prana.

La respirazione yogica completa è la più semplice e si articola in tre fasi che vanno collegate tra loro:

1. Inspiro espandendo l’addome, lasciando gonfiare la pancia come un palloncino usando il diaframma (respirazione addominale).

2. Continuo a inspirare, dilatando la gabbia toracica con l’aiuto dei muscoli intercostali (respirazione toracica).

3. L’aria raggiunge l’apice dei polmoni facendo leggermente alzare le clavicole (respirazione clavicolare).

A ritroso, durante l’espiro abbasso le clavicole, contraggo leggermente il torace e svuoto l’addome.

Altre tecniche più complesse vengono insegnate durante le lezioni di hatha yoga, con l’obiettivo di ottenere un più alto livello di energia fisica, emotiva e spirituale.

Ma c’è di più.

Così come il corpo e la mente sono legati tra loro e la stabilità di uno dipende dall’altro, allo stesso modo il respiro e la mente sono profondamente connessi. In momenti di stress il respiro è, infatti veloce e superficiale, mentre quando la mente è rilassata, anche il respiro è lento e profondo.

Avere maggior controllo del respiro, aiuterà la mente a diventare più stabile e, conseguentemente, a migliorare anche il nostro benessere psichico.

Anche le neuroscienze ci dicono che il fattore che più di ogni altro consente di prevedere salute e felicità sia l’integrazione cerebrale . Ciò significa che il processo di collegamento di aree differenziali del cervello è probabilmente dovuto ad un meccanismo che consente un’ottimizzazione della nostra capacità di autoregolare l’attenzione, le emozioni, il pensiero, il comportamento e le relazioni. E pare ormai dimostrato che le connessioni neuronali possano essere regolate e modificate (si vedano gli studi sul connettoma di Sebastian Seung).

Nel libro Diventare consapevoli Daniel Siegel, docente di Psichiatria presso la University of California School of medicine fornisce suffragi scientifici di ciò che accade ai nostri neuroni quando utilizziamo le potenzialità latenti della mente, anche e soprattutto attraverso il respiro.

Siegel riconosce al training mentale e alle pratiche di consapevolezza (attivati attraverso la meditazione) il fondamento per la creazione di benessere personale e collettivo.

Per migliorare la qualità della nostra vita e della vita delle nostre organizzazioni – dice – dobbiamo imparare ad allenare, attraverso il respiro consapevole, tre capacità:

1. Attenzione focalizzata (= capacità di concentrazione, di evitare le distrazioni o di lasciarle andare, quando arrivano);

2. Consapevolezza aperta (=capacità di ascolto e di rimanere ricettivi verso ciò che accade senza identificarci nei contenuti oggetto della nostra attenzione);

3. Intenzione gentile (= capacità di entrare in relazione compassionevole/amorevole con sé stessi e con gli altri).

Parleremo prossimamente degli effetti benefici delle pratiche di meditazione sul cervello per migliorare l’equilibrio psico-fisico, per aumentare la concentrazione, per sviluppare fiducia e flessibilità.

Per il momento, nell’augurarvi una serena estate, mi limito a darvi un piccolo consiglio: concedetevi qualche momento della giornata in cui portare attenzione al vostro respiro. Vi sentirete subito meglio.

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Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 2

Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 2

La ricerca di un management etico, che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni può essere veicolato anche dai principi del Raja yoga. Oggi ci concentriamo sui precetti del fare (Nyama), per portare un giusto equilibrio tra calma ed energia nel nostro agire professionale, con un occhio di riguardo al tema dell’essenzialità.

Genitori con il cuore

Nutrire la vita spirituale può essere un buon modo per nutrire anche il proprio percorso professionale, soprattutto valorizzando – per sé e per gli altri – quella mission che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare. Abbiamo già anticipato in un precedente post dal titolo “Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 1” come la ricerca di un management etico, che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni può essere veicolato anche da alcuni suggerimenti provenienti dai principi del Raja yoga, contenuti nel testo sacro, denominato”Yoga Sutra” di Patanjali, secondo il quale i primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, primariamente, sul rispetto dei 5 Yama e dei 5 Niyama .

Abbiamo già parlato degli Yama le “cose da non fare”, mentre i Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

I Nyamas sono cinque e agiscono a livello interiore:

1. Saucha = lavorare sulla pulizia interiore;

2. Santosha = gioiredi quel che si ha

3. Tapas = saper essere essenziali

4. Svadhyaya = dedicarsi allo studio e alla conoscenza di sè

5. Isvara pranidhana = praticare la resa.

 

Vediamoli uno per uno.

In sanscrito la parola Saucha significa purificazione e riguarda la pulizia del corpo, ma non solo.

Per avere un corpo pulito e puro è importante praticare con costanza le asana e nutrirsi con una dieta naturale ed equilibrata. Ma anche liberare la mente da pensieri tossici, così come abituarsi a riconoscere e a disinnescare le credenze limitanti che non ci consentono di entrare in contatto con il nostro potenziale di realizzazione.

Santosha significa capacità di accontentarsi, di saper stare con quel che c’è. Per applicare questo principio alla vita lavorativa il primo passo è capire cosa è superfluo. Una volta individuato ciò di cui non abbiamo bisogno occorre imparare a lasciare andare quel che non serve e a concentrare le energie là dove, come dice S. Covey ne “Le sette regole per avere successo”, possiamo ampliare la nostra sfera di influenza per passare dal management alla leadership di noi stessi.

Si potrebbe obiettare che accontentarsi voglia dire frenare l’ambizione e la prosperità. Ciò può essere vero, solo se confondiamo l’essere contenti con l’essere in fuga dalle proprie responsabilità: se abbiamo paura dell’impegno o del fallimento o non siamo capaci di essere profondamente ingaggiati da quel che facciamo potremmo dichiarare di essere contenti di quel che abbiamo, per paura di cambiare. La vera contentezza non significa pigrizia, ma un giusto equilibrio tra pacatezza ed energia.

Tapas significa austerità e riguarda l’esercizio della forza di volontà, il prefiggersi una meta, anche piccola, da raggiungere con costanza e dedizione. La pratica di Tapas ci insegna ad uscire dalla nostra zona di comfort e ad eliminare i modelli e le abitudini negative che spesso sosteniamo con un notevole dispendio di energie.

Tutti noi abbiamo limiti e condizionamenti che sostengono i nostri schemi mentali: la pratica dello yoga e della meditazione ci aiutano a guardarli senza giudizio e a trasformarli. Secondo la Psicosintesi di R.Assagioli la volontà è una qualità dell’essere umano che non può solo essere legata all’autodisciplina, ma che deve anche essere buona (cioè volta al bene), sapiente (cioè dotata di pensiero strategico) e forte (cioè determinata a trasformare gli impulsi in obiettivi).

Svadhyaya invece significa studio di sé stessi e riguarda il valore che diamo alla conoscenza.

Nella pratica di questo principio è racchiuso anche lo studio dei testi antichi e dei grandi maestri, ma soprattutto significa raccogliere dati di osservazione statistica di quel che siamo e di come reagiamo agli stimoli esterni: quanto siamo realmente in grado di autodeterminarci, quanto ci facciamo influenzare dal contesto, come possiamo valorizzare le nostre qualità? Gli studi sull’intelligenza emotiva ci aiutano a riconoscere, gestire e comunicare correttamente il nostro mondo emozionale, con l’obiettivo di rendere i nostri comportamenti efficaci rispetto al contesto e sostenibili per noi. E ciò è possibile solo grazie ad un continuo allenamento.

Infine Isvara (abbandono) Pranidhana (divino), significa abbandonarsi all’essenza di ciò che è, al Divino.

La nostra interiorità è legata all’esterno da un filo sottile: bisogna imparare ad arrendersi all’esistenza, così com’è, perché nulla accade invano. Ogni esperienza viene per insegnarci qualcosa e sta a noi comprendere la lezione che ci porta per evolvere.

Questa è indubbiamente la pratica più difficile da seguire; siamo così inclini a controllare ogni nostra azione ed il suo risultato che il lasciar andare non è per niente facile. Molti di noi hanno bisogno di “controllo nella vita”, e vivono continue battaglie tra mente ed emozioni.

La pratica consiste nel lasciare continuamente andare e nel non crearsi aspettative, proprio mentre la mente continuerà imperterrita a fare programmi, a chiedere rendiconti e a desiderare risultati.

Ciò non vuol dire, ancora una volta rimanere distaccati e poco coinvolti dal nostro agire.

Anzi, significa agire con il massimo interesse ma disinteressatamente, quasi come se, una volta intrapresa un’azione, i frutti della stessa fossero affidati ad una forza più grande.

E’ l’esperienza, ad esempio, della fiducia, come leva per far funzionare le organizzazioni: una volta messa a disposizione del team occorre lasciarla vivere di vita propria, avendo il coraggio di non interferire.

 

Il nostro cammino procede con altri suggerimenti. Prossimamente parleremo di come usare il respiro per riportare la nostra focalizzazione all’interno, per favorire la concentrazione, per combattere ansia e stress.

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Pillole di spiritualità per il manager di oggi. Step 1

Pillole di spiritualità per il manager di oggi. Step 1

Imparare a fidarsi della propria energia può aiutarci nella realizzazione professionale e condurci lungo un percorso di management etico che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni.

Genitori con il cuore

Photo by Joshua Earle on Unsplash E’ possibile coniugare management e spiritualità? Di spiritualità se ne parla poco e spesso male, confondendo la spiritualità con la religione o con qualche oscura forma di esoterismo .

Recentemente, invece, un filone americano di studi ha lanciato l’idea di valorizzare il “capitale spirituale” come variabile fondamentale per la produttività delle organizzazioni aziendali e nei luoghi di lavoro.

Noi Occidentali siamo abituati a portare somma attenzione a ciò che succede all’esterno di noi e poca a ciò che succede all’interno. Reputiamo, cioè, maggiormente degno di nota il campo fenomenologico dell’esistenza, a discapito di tutto il mondo interiore, cui tendiamo a rivolgerci solo se soffriamo emotivamente o se cominciamo ad entrare in contatto con alcune aree di vulnerabilità del corpo, dovute all’avanzare dell’età (e quindi alla paura della morte) o alla presenza di malattie.

Chi, come me, ha sperimentato personalmente e professionalmente come yoga e meditazione possano essere uno strumento per portare risorse e consapevolezza nella vita professionale sa bene che non si pratica solo per mantenere il corpo in salute: i benefici si riflettono a livello fisico, ma soprattutto a livello emozionale ed energetico, oltre che spirituale. Praticando yoga ho imparato a fidarmi della mia energia, come veicolo per riportarmi in asse con la mia interiorità, quel nucleo immutabile e non soggetto alle vicissitudini del mondo esterno, che mi ha guidato verso una realizzazione più profonda della mia nota autentica e che mi sta conducendo lungo un percorso di management etico, che possa creare catene di valore umano.

Attraverso la pratica ho imparato a restituire tutto ciò che avevo imparato: rimettere in circolo le energie è diventato per me un tema di ecologia dell’anima.

È stato ed è un grande lavoro, più che altro perché è difficile togliere strati (o viluppi) che impediscono alla consapevolezza di espandersi, ma soprattutto per la difficoltà oggettiva di affrontare questa ricerca interiore, dovendo ogni giorno negoziare spazi e risorse tra le mille incombenze di libera professionista milanese, mamma di 3 figli!! Chi lavora su di sé attraverso pratiche spirituali è (spesso… ma non sempre!) circondato da un’aura di calma interiore, centratura ed equilibrio emotivo, perché entra in contatto con alcuni livelli energetici più sottili. Ma bisogna avere dei validi traghettatori.

Se siete interessati a questo percorso, vi consiglio di avvicinarvi ad alcuni testi della filosofia vedanta che offrono diverse chiavi di lettura, a seconda del livello di approfondimento e di crescita spirituale sostenibile per ciascuno.

Mi riferisco, in particolare, agli Yoga Sutra di Patanjali , testo di incerta datazione (collocabile tra il 600 a.c e il primo secolo d.c.) che raccoglie in 196 brevi aforismi tutti i principi spirituali alla base della filosofia dello yoga e della meditazione.

Secondo Patanjali, la mente razionale non può comprendere la necessità di integrazione di corpo, mente emozioni e anima: infatti egli definisce lo yoga come citta vritti nirodha ovvero la “cessazione delle fluttuazioni della mente”. I primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, inanzitutto, sul rispetto di alcuni precetti: 5 Yama e 5 Niyama .

Gli Yama possono essere tradotti come “cose da non fare” e sono considerati principi etici che hanno lo scopo di migliorare il comportamento.

Gli Yama sono 5:

Ahimsa (non violenza, non nuocere a sé o agli altri). Pensate a tutte le forme di violenza e di manipolazione soprattutto verbale cui assistiamo quotidianamente nelle nostre relazioni. Valorizzare la gentilezza e l’empatia nelle organizzazioni significa praticare Ahimsa.

Satya (verità, sincerità, autenticità): Quante volte nella comunicazione siamo ispirati a verità e quante invece, la mancanza di sincerità è una difesa che rende difficile la comunicazione e prelude l’ascolto? Praticare Satya significa anche riconoscere le leve che muovono il nostro sistema di credenze e valorizzare la nostra mission nel mondo professionale (è questo il tema della vocazione lavorativa).

Asteya (non rubare). Appropriarsi indebitamente di idee altrui o non riconoscere il valore dei contributi professionali di tutti gli anelli dell’organizzazione è un modo per non praticare Asteya.

Brahmacharya (continenza nella espressione delle energie). Il principio, genericamente riferito all’uso dell’energia sessuale, è invece applicabile a qualunque dispendio energetico che ci allontana dai nostri obiettivi di realizzazione professionale. Pensiamo alla teoria di Covey sulla gestione del tempo e alla necessità di focalizzarsi sulle priorità.

Aparigraha (non avidità nel possedere). Le dinamiche di potere sono la causa della maggior parte dei conflitti all’interno delle organizzazioni, perché generate da una visione ego-centrata della leadership. Passare ad una visione eco-centrata, ovvero orientata a far crescere il sistema nel suo complesso, invece che a nutrire l’ego del leader, è un modo per praticare Aparigraha di cui ci parlano già le teorie sulla leadership ispirazionale come la U-theory di Otto Scharmer.

I Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

Ne parleremo in un prossimo post e, se, avrete la pazienza di seguirmi, scoprirete come nutrire la vita spirituale sia un buon modo per nutrire anche e soprattutto il proprio percorso professionale e come valorizzare per sé e per gli altri quella missione che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare.

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Come lo yoga può aiutarci a migliorare la nostra vita professionale

Come lo yoga può aiutarci a migliorare la nostra vita professionale

Mente, corpo ed emozioni sono inscindibilmente collegati. Se il counseling e la formazione comportamentale aiutano a prendere consapevolezza delle proprie risorse e a tradurre la progettualità in comportamenti concreti e sostenibili nel tempo, lo yoga fa lavorare sul corpo, per lasciare che le tensioni si rilassino e la consapevolezza sia libera di concentrarsi nella realizzazione dei desideri.

Genitori con il cuore

C’è stato un momento della mia vita professionale in cui è stato inevitabile cambiare percorso: lavoravo in azienda da oltre 20 anni con discreta soddisfazione, ma sentivo che non stavo utilizzando le mie risorse nella direzione di maggior realizzazione del mio potenziale. Già da diversi anni praticavo yoga e sentivo che in quella pausa del pensiero che mi regalavo, era condensata la possibilità di entrare in contatto con una parte di me autentica e vorace, che richiedeva la mia completa attenzione.

E così ho cominciato a ri-creare una vita professionale su misura per me, da una parte lavorando sugli strumenti di cui avevo bisogno per diventare una brava formatrice sui temi dell’intelligenza emotiva e una counselor professionista presente e preparata, dall’altra, portando nella mia vita la pratica di insegnamento dell’Integral yoga.

In una visione olistica dell’essere umano, mettere insieme formazione, counseling e yoga è stato, quindi, per me, naturale e inevitabile, poiché sono tutti strumenti per facilitare la relazione con sé stessi e con gli altri.

Mente, corpo ed emozioni sono inscindibilmente collegati. Se il counseling e la formazione comportamentale aiutano a prendere consapevolezza delle proprie risorse e a tradurre la progettualità in comportamenti concreti e sostenibili nel tempo, lo yoga fa lavorare sul corpo, per lasciare che le tensioni si rilassino e la consapevolezza sia libera di concentrarsi nella realizzazione dei desideri.

Per esempio, attraverso alcune pratiche di respirazione (pranayama) è possibile mettere in contatto emisfero destro e sinistro del cervello e consentire una sana contaminazione di creatività e razionalità.

Le pratiche di rilassamento guidato (Yoga Nidra) sono formidabili antidoti allo stress, cui siamo costantemente sottoposti, e ci aiutano a recuperare energia in pochi minuti.

Oppure, attraverso la pratica di alcune semplici asana, l’hatha yoga insegna il consapevole rilascio della muscolatura che facilita l’allungamento e a non trattenere, a non proiettare sulla postura il desiderio di realizzazione, ma a lasciare che prenda corpo attraverso un agire senza sforzo, un naturale accomodamento a quello che succede.

E’ quel che nel linguaggio comune si intende per “stare nel qui e ora”.

Sono esercizi da praticare con il corpo, ma che collegano inconsciamente con la possibilità di restare concentrati sui propri obiettivi e di fidarsi, in qualunque situazione.

Stare in una posizione scomoda attiva una competenza di accettazione: la scomodità magicamente svanisce nel momento in cui il corpo si adatta, la mente si placa e il respiro diventa calmo e regolare.

La pratica yoga, oltre a portare innumerevoli benefici al corpo può aiutarci a contenere le emozioni e a disinnescare la paura e gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei nostri progetti.

Naturalmente queste visioni non ci mettono al riparo dai fallimenti, non ci donano poteri magici, non ci trasformano in persone diverse, ma ci educano a collaborare con l’inevitabile e ad entrare in contatto profondo con le leve che muovono il nostro sistema di credenze e desideri. L’intera disciplina dello Yoga si basa, infatti, sull’attivazione del Dharma, la tendenza innata (e purtroppo spesso dormiente) dell’uomo ad andare verso la sua essenza profonda, verso l’Autorealizzazione. Il termine stesso di yoga, nasce dalla radice sanscrita “YUJ” ossia “mettere assieme”, “unire”, ha il significato di “integrazione“. Lo Yoga è dunque la “disciplina del silenzio” con cui l’essere tutto si ricongiunge a sé stesso ritrovando autenticità, calma e chiarezza mentale.

Daniel Goleman, padre delle teorie sull’Intelligenza emotiva nel 1986 pubblica un articolo sul New York Times dal titolo Relaxion: surprising benefits detected in cui si cominciano a delineare i benefici di una pratica costante di tecniche di rilassamento corporeo e di pratica yoga dolce per il miglioramento dello stato psico-fisico in pazienti affetti da alcune patologie (soprattutto cardio-vascolari e respiratorie).

“I vantaggi medici – dice – non derivano da normali attività rilassanti, come il giardinaggio, ma da tecniche intensive che consentono alle persone di evocare uno stato fisiologico specifico”. “Stare seduti in silenzio o, ad esempio, guardare la televisione, non è abbastanza per produrre i cambiamenti fisiologici (…) è necessario utilizzare una tecnica di rilassamento che spezzerà il treno del pensiero quotidiano e diminuirà l’attività del sistema nervoso simpatico”.

Ancora più avanti va il lavoro di Jon Kabat-Zinn, professore di medicina presso la University of Massachusetts e ideatore del “protocollo Mindfulness”, che, utilizzando tecniche di meditazione profonda e di allenamento alla consapevolezza, riporta una netta diminuzione del dolore e dei sintomi correlati in pazienti in cura con la terapia del dolore. Più recentemente le applicazioni della Mindfulness si sono estese all’ambito educativo e organizzativo come proposta di un vero e proprio stile di vita più orientato al benessere, in quanto più consapevole.

Ma nell’ambiente di lavoro quali possono essere i benefici di una pratica costante di yoga e meditazione?

Nel parleremo giovedì 7 marzo 2019 nel corso dell’evento Energia e benessere in ufficio Gestire lo stress e migliorare la concentrazione con l’Integral Yoga, organizzato con Aidp Lombardia (Associazione Italiana per la direzione del personale), con il Centro Integral Yoga Shanti di Milano, e con la partecipazione di Nutrimente Onlus.

Basti qui anticipare che la pratica dell Integral Yoga nelle organizzazioni migliora la qualità della vita e delle relazioni, perché attiva:

– miglior controllo di impulsi ed emozioni, contribuendo a creare un clima aziendale maggiormente orientato all’ascolto e al non-giudizio;

– condivisione di spazi neutri dove cementare le relazioni di team e stare in armonia;

– aumento delle capacità di concentrazione e di problem solving;

– miglioramento della postura e dell’equilibrio psico-fisico con innumerevoli vantaggi sul sistema muscolare, cardio-vascolare e respiratorio.

Anche le nuove teorie sulla leadership ispirazionale (U-theory di Otto Scharmer) pongono, tra i requisiti indispensabili per consentire alle organizzazioni di produrre benessere e innovazione tre qualità fondamentali:

1. Una mente aperta, ovvero la capacità di sospendere il giudizio;

2. Un cuore aperto, ovvero la capacità di connettersi alle possibilità di sviluppo evolutive del sistema e di indirizzare l’attenzione da sé agli altri;

3. Una volontà aperta, ovvero la capacità di lasciar andare quel che non serve e di lasciarsi ispirare da quel che arriva.

Per attivare queste qualità occorre aprirsi ad un nuovo mind-set di competenze che consentano al leader prima di tutto di coltivare in sé e, poi, di trasmettere agli altri l’attitudine a stare in ogni processo, prestando attenzione alla propria attenzione e così di intercettare le spinte evolutive del futuro emergente in una direzione co-creativa, etica e sostenibile del business.

E l’integral yoga è un ottimo allenamento per questo.

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Meditazione e Yoga a scuola per favorire l’apprendimento

Meditazione e Yoga a scuola per favorire l’apprendimento

Essere intelligenti ed essere bravi a scuola non significa necessariamente saper pensare bene e in maniera autonoma. Questa è un’arte che la scuola spesso si dimentica di insegnare, fornendo una gran massa di pensieri già pensati da altri.

Quali strumenti possiamo utilizzare per facilitare l’apprendimento, lavorando sull’interiorità e la consapevolezza degli studenti?

Genitori con il cuore

Sempre più scuole in Italia e nel mondo stanno introducendo la meditazione e lo Yoga tra i banchi, con effetti benefici sia per gli studenti che per gli insegnanti. E’ un modo per sperimentare nuovi modelli educativi, che valorizzano l’integrazione tra cuore e cervello e attivano negli studenti emozioni, intuizione, immaginazione, come strumento per facilitare le funzioni cognitive e per agevolare l’apprendimento. I bambini e i ragazzi imparano meglio, hanno voti più alti, sono più concentrati e tranquilli, ma soprattutto sono più sereni nella relazione con gli altri.

A scuola il pensiero viene sempre messo al centro, ma non può essere un pensiero avulso dalla realtà, deve poter confluire con le emozioni, con le esperienze personali, con le aspirazioni.

Stefano Viviani, insegnante di scuole medie e counselor psicosintetico, nel libro “Intelligenza In-attesa” Interiorità e meditazione a scuola ci racconta la sua esperienza di lavoro in classe, grazie all’utilizzo di tecniche introspettive e di meditazione: l’apprendimento profondo coinvolge anche il cuore, mentre l’apprendimento di testa resta in superficie.

Molte scuole hanno sperimentato anche percorsi di Mindfulness, proposti dagli stessi insegnanti opportunamente formati. Secondo la definizione “classica” quella di Jon Kabat-Zinn, uno dei pionieri di questo approccio. “Mindfulness significa prestare attenzione, ma in un modo particolare:

a) con intenzione,

b) al momento presente,

c) in modo non giudicante”

Mindfulness, vuol dire consapevolezza di quel che si sta vivendo, senza proiezioni sul futuro o ripiegamenti nel passato.

E’ lo stato di stare nel presente, che può essere facilitato attraverso pratiche di consapevolezza del corpo e del respiro.

 

Sin dalla scuola dell’infanzia è possibile far accedere i bambini alla possibilità di stare con sé stessi, in uno spazio in cui possono ascoltarsi e ascoltare, anche attraverso la pratica dell’ Hatha yoga.

Ho avuto il privilegio di poter insegnare yoga ai bambini di 4 e 5 anni ed è stata un’esperienza rigenerante, soprattutto per me.

Insegnare ai bambini a praticare pochi minuti di silenzio, a seguire il flusso del respiro, a restare concentrati a guardare la fiamma di una candela, apre una porta importante sulla loro interiorità e li porta immediatamente a percepire uno stato di calma, che diventa una risorsa attivabile al bisogno.

I bambini imparano molto velocemente che possono calmarsi da soli, se percepiscono qualcosa che li agita.

E quindi, attraverso il gioco , apprendono come riconoscere meglio i segnali del corpo, a collegare alcune emozioni (come la rabbia o la paura) e ad agirle simbolicamente attraverso le asana (posizioni yoga).

Per esempio, se sento che sono arrabbiato, posso dare spazio alla rabbia attraverso la posizione del “leone”, se ho paura e ho bisogno di calmarmi posso raggomitolarmi della posizione del “bambino”…e così via…

Imparare a veicolare le emozioni in un contesto di non-giudizio dove possono più facilmente, essere gestite e trasformate in risorse, è una forma di apprendimento.

I ragazzi più grandi, invece si abituano ad aprirsi all’insegnante e agli altri, per parlare di sé in un clima di fiducia e ascolto che è una base solida su cui costruire l’apprendimento nozionistico.

Stefano Viviani, nella sua esperienza alle scuole medie, racconta che dopo aver creato questo tessuto di fiducia (che dura anche diverse lezioni), di riconoscimento di sé stessi e degli altri, di empatia , diventa molto più semplice far passare i contenuti che i ragazzi accolgono con entusiasmo, perché a monte, sentono di essere stati accettati come persone.

Già soltanto il fatto di costruire uno spazio in cui potersi esprimere su sé stessi e sul mondo, crea un cambiamento. I ragazzi intuiscono immediatamente l’importanza dell’occasione loro offerta e e la colgono con grande entusiasmo. E i risultati anche in termini scolastici arrivano: maggior rendimento, migliori relazioni, riduzione drastica di comportamenti negativi.

Per ulteriori approfondimenti sul tema, vi invito all’Aperitivo letterario del 9 maggio 2018, h. 19.30 presso Cafè Bamboo, Via Marcona 6, Milano, dove sentiremo anche la testimonianza di un’insegnante che ha sperimentato la Mindfulness in una Scuola Primaria di Milano.

 

E’ infatti importante che l’insegnante accolga l’impegno di lavorare prima di tutto su sé stesso, investendo anche sulla propria crescita umana, psicologica e spirituale.Come si possono guidare gli altri se si è ciechi?

 

Purtroppo invece questo punto è spesso completamente ignorato dalla visione pedagogica classica, dove all’insegnante è richiesto essenzialmente di “sapere” o nei casi più fortunati di “saper insegnare”, non certo di “saper essere”.

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