Imparare a fidarsi della propria energia può aiutarci nella realizzazione professionale e condurci lungo un percorso di management etico che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni.

Genitori con il cuore

Photo by Joshua Earle on Unsplash E’ possibile coniugare management e spiritualità? Di spiritualità se ne parla poco e spesso male, confondendo la spiritualità con la religione o con qualche oscura forma di esoterismo .

Recentemente, invece, un filone americano di studi ha lanciato l’idea di valorizzare il “capitale spirituale” come variabile fondamentale per la produttività delle organizzazioni aziendali e nei luoghi di lavoro.

Noi Occidentali siamo abituati a portare somma attenzione a ciò che succede all’esterno di noi e poca a ciò che succede all’interno. Reputiamo, cioè, maggiormente degno di nota il campo fenomenologico dell’esistenza, a discapito di tutto il mondo interiore, cui tendiamo a rivolgerci solo se soffriamo emotivamente o se cominciamo ad entrare in contatto con alcune aree di vulnerabilità del corpo, dovute all’avanzare dell’età (e quindi alla paura della morte) o alla presenza di malattie.

Chi, come me, ha sperimentato personalmente e professionalmente come yoga e meditazione possano essere uno strumento per portare risorse e consapevolezza nella vita professionale sa bene che non si pratica solo per mantenere il corpo in salute: i benefici si riflettono a livello fisico, ma soprattutto a livello emozionale ed energetico, oltre che spirituale. Praticando yoga ho imparato a fidarmi della mia energia, come veicolo per riportarmi in asse con la mia interiorità, quel nucleo immutabile e non soggetto alle vicissitudini del mondo esterno, che mi ha guidato verso una realizzazione più profonda della mia nota autentica e che mi sta conducendo lungo un percorso di management etico, che possa creare catene di valore umano.

Attraverso la pratica ho imparato a restituire tutto ciò che avevo imparato: rimettere in circolo le energie è diventato per me un tema di ecologia dell’anima.

È stato ed è un grande lavoro, più che altro perché è difficile togliere strati (o viluppi) che impediscono alla consapevolezza di espandersi, ma soprattutto per la difficoltà oggettiva di affrontare questa ricerca interiore, dovendo ogni giorno negoziare spazi e risorse tra le mille incombenze di libera professionista milanese, mamma di 3 figli!! Chi lavora su di sé attraverso pratiche spirituali è (spesso… ma non sempre!) circondato da un’aura di calma interiore, centratura ed equilibrio emotivo, perché entra in contatto con alcuni livelli energetici più sottili. Ma bisogna avere dei validi traghettatori.

Se siete interessati a questo percorso, vi consiglio di avvicinarvi ad alcuni testi della filosofia vedanta che offrono diverse chiavi di lettura, a seconda del livello di approfondimento e di crescita spirituale sostenibile per ciascuno.

Mi riferisco, in particolare, agli Yoga Sutra di Patanjali , testo di incerta datazione (collocabile tra il 600 a.c e il primo secolo d.c.) che raccoglie in 196 brevi aforismi tutti i principi spirituali alla base della filosofia dello yoga e della meditazione.

Secondo Patanjali, la mente razionale non può comprendere la necessità di integrazione di corpo, mente emozioni e anima: infatti egli definisce lo yoga come citta vritti nirodha ovvero la “cessazione delle fluttuazioni della mente”. I primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, inanzitutto, sul rispetto di alcuni precetti: 5 Yama e 5 Niyama .

Gli Yama possono essere tradotti come “cose da non fare” e sono considerati principi etici che hanno lo scopo di migliorare il comportamento.

Gli Yama sono 5:

Ahimsa (non violenza, non nuocere a sé o agli altri). Pensate a tutte le forme di violenza e di manipolazione soprattutto verbale cui assistiamo quotidianamente nelle nostre relazioni. Valorizzare la gentilezza e l’empatia nelle organizzazioni significa praticare Ahimsa.

Satya (verità, sincerità, autenticità): Quante volte nella comunicazione siamo ispirati a verità e quante invece, la mancanza di sincerità è una difesa che rende difficile la comunicazione e prelude l’ascolto? Praticare Satya significa anche riconoscere le leve che muovono il nostro sistema di credenze e valorizzare la nostra mission nel mondo professionale (è questo il tema della vocazione lavorativa).

Asteya (non rubare). Appropriarsi indebitamente di idee altrui o non riconoscere il valore dei contributi professionali di tutti gli anelli dell’organizzazione è un modo per non praticare Asteya.

Brahmacharya (continenza nella espressione delle energie). Il principio, genericamente riferito all’uso dell’energia sessuale, è invece applicabile a qualunque dispendio energetico che ci allontana dai nostri obiettivi di realizzazione professionale. Pensiamo alla teoria di Covey sulla gestione del tempo e alla necessità di focalizzarsi sulle priorità.

Aparigraha (non avidità nel possedere). Le dinamiche di potere sono la causa della maggior parte dei conflitti all’interno delle organizzazioni, perché generate da una visione ego-centrata della leadership. Passare ad una visione eco-centrata, ovvero orientata a far crescere il sistema nel suo complesso, invece che a nutrire l’ego del leader, è un modo per praticare Aparigraha di cui ci parlano già le teorie sulla leadership ispirazionale come la U-theory di Otto Scharmer.

I Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

Ne parleremo in un prossimo post e, se, avrete la pazienza di seguirmi, scoprirete come nutrire la vita spirituale sia un buon modo per nutrire anche e soprattutto il proprio percorso professionale e come valorizzare per sé e per gli altri quella missione che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare.

Photo by Joshua Earle on Unsplash