Le pulsioni di odio, rabbia e aggressività nascono spesso da modelli educativi inadeguati e da esperienze traumatiche, che a loro volta originano da un bisogno di essere rispecchiati, non soddisfatto nel modo giusto. Cosa possiamo fare per renderci consapevoli di questo bisogno e trasformarlo in un sentimento adulto di riconoscimento e rispetto di sé e del contesto sociale di cui facciamo parte?

Ne parliamo all’Aperitivo letterario del 13 settembre 2018, ore 19.30 presso Cafè Bamboo, Milano.

Genitori con il cuore

La parola aggressività deriva dal latino “adgredi”, ovvero “andare verso”.

Nel nostro immaginario questo moto richiama alla mente sentimenti distruttivi incontenibili, ma può anche evocare emozioni benigne: andare verso il mondo per opporsi ad esso e difendere il proprio territorio da attacchi esterni o negoziare il proprio spazio nel rispetto degli altri, da cui comunque, abbiamo bisogno di essere accettati.

Distruttività e sofferenza umana possono essere comprese più consapevolmente se ne indaghiamo le origini.

“Se partiamo dall’assunto che la nostra vera natura non è aggressiva, ma compassionevole, il nostro rapporto con il mondo cambierà sensibilmente”. Dalai Lama

Contrariamente a quanto sostenuto da Hobbes, filosofo inglese del ‘600, che riteneva l’HOMO HOMINI LUPUS (ovvero che la natura dell’uomo sia sostanzialmente malvagia e che si ridimensioni, nella relazione con i suoi simili, solo per necessità), studi recenti di psicobiologia e neuroscienze, ci portano a riconoscere un nucleo fondante dell’uomo profondamente sociale e aperto all’altro.

I comportamenti aggressivi sarebbero dunque frutto di cattive abitudini educative o di traumi che feriscono profondamente il nostro bisogno di essere amati e di amare.

Ne parleremo approfonditamente con la dott.ssa Fiorella Pasini (psicologa e psicoterapeuta), con cui faremo qualche riflessione sul suo testo Un essere unico. Dal trauma all’aggressivitànel corso dell’Aperitivo letterario del prossimo 13 settembre presso Cafè Bamboo.

Prendendo spunto dal suo libro, vi anticipo, però, qualche riflessione.

Esiste senz’altro in ogni essere umano un bisogno “agonistico” di affermazione, di esserci e di essere riconosciuto nel contesto dei pari, ma fa parte di un altro bisogno, altrettanto importante che è quello di far parte di un gruppo, di stare al mondo insieme agli altri, di appartenere ad una compagine sociale.

Se un bambino, da piccolo, ha avuto qualcuno che si è preso cura di lui, rispecchiando profondamente questo bisogno, crescerà con la fiducia di relazioni buone, stabilendo rapporti paritari dove non è necessario sopraffare, né essere sopraffatti.

Viceversa se ciò non è stato possibile, la forza buona dell’aggressività che lo spinge naturalmente ad andare verso gli altri si trasformerà in una spinta propulsiva violenta e autodistruttiva, costruita sul modello di relazioni squilibrate.

E allora che fare? Se ci rendiamo effettivamente conto che non è stato possibile sperimentare un tipo di attaccamento sicuro, come possiamo, in età adulta porvi rimedio?

Due sono le considerazioni da fare.

Da una parte è importante riflettere sul fatto che, in una personalità formata, la trasformazione della pulsione aggressiva può avvenire in qualunque momento, solo se si attiva quel processo di autoconsapevolezza che ci consente di osservarci dall’esterno e di riconoscere e accettare quella sofferenza antica, curandola come una ferita. Il processo di riconoscimento può anche avvenire grazie ad una persona, ad un evento, ad una situazione esterna che funge da “centro unificatore”, da catalizzatore cioè di quel processo di autoriconoscimento del senso di sé, attraverso le connessioni empatiche adatte a quel momento: insegnanti, amici, gruppi di pari e, in senso più ampio, la comunità in cui viviamo e le esperienze che facciamo possono ridarci fiducia nella connessione profonda con il nostro nucleo fondante, quello che non è stato riconosciuto nella sua essenza primigenia.

Se ne deduce che la relazione empatica e l’autentica condivisione consente a ciascuno di noi di fungere, nel momento presente, da attivatore del processo di trasformazione di chi ci sta accanto. Gli uni per gli altri abbiamo la possibilità di riconoscerci e rispecchiarci nelle nostre aspirazioni più profonde.

La seconda considerazione è che se – come ci ricorda Epicuro – l’amicizia rientra tra i bisogni naturali e necessari per la felicità dell’uomo, sviluppare qualità umane come l’amore verso gli altri, la non violenza, l’accoglienza, il desiderio di pace aiuta a non lasciarsi travolgere da emozioni negative quali odio, rabbia, aggressività e a far sì che non siano esse a dirigere i nostri comportamenti.

Aprire le braccia all’altro ci insegnerà, quindi, anche a prenderci migliore cura di noi stessi.

Photo by Prapoth Panchuea on Unsplash