
Violenza economica: come l’educazione finanziaria può aiutare la gender equality
In Italia oggi 1 donna su 5 non ha un suo conto corrente al Nord (1 su 4 al Sud) o se ce l’ha spesso è gestito dal partner.

Molte sono ancora le donne che vengono convinte (o costrette) ad abbandonare il lavoro per stare a casa o, magari per lavorare nell’azienda di famiglia, senza retribuzione.
La violenza economica è un problema di cui si parla poco o, prevalentemente in associazione alla violenza fisica, cui è intimamente connesso, ma non è solo un fenomeno racchiuso tra le mura domestiche.
Se ne è parlato al Festival dello sviluppo sostenibile, il 29 settembre 2020, in occasione del Convegno Come contrastare la violenza economica sulle donne: L’innovazione dà una mano? organizzato dal Gruppo Asvis per la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda ONU 2030, in relazione al Goal 5 (Parità di genere), di cui ho l’onore di far parte, come coordinatrice del Gruppo Donne lavoro e sostenibilità professionale di Aias.
La violenza economica, ci ha spiegato il Gip del Tribunale di Vercelli Fabrizio Filice viene spesso utilizzata come arma di ricatto per la donna che intende separarsi o nel caso di denunce per maltrattamenti, ove “il reato di maltrattamenti in famiglia potrebbe essere integrato dalle condotte economicamente sensibili (accentramento della gestione patrimoniale, controllo di spesa, instillazione di sensi di colpa in relazione alla differenza di retribuzione, in eccesso o in difetto)”.
Ma non è questo l’unico aspetto della violenza economica, sebbene sia naturalmente il più grave.
Secondo la sottosegretario al Mef Maria Cecilia Guerra, il divario di genere sul mercato del lavoro in Italia è assestato sul 44% e consta di 3 variabili:
– Minor guadagno orario per le donne;
– Meno ore retribuite mensili (per esempio, per un maggiore ricorso ai congedi parentali);
– Tasso di occupazione femminile più basso di quello maschile.
La posizione della donna sul mercato del lavoro è più debole anche perché i compiti di cura delle persone più fragili (figli, anziani e disabili) gravano quasi integralmente sulle donne: è giocoforza che il loro ruolo lavorativo debba essere compatibile con un posto più vicino a casa e con orari più flessibili.
Inoltre, se i carichi di lavoro di cura non sono equamente distribuiti anche lo smart working rischia di diventare un ghetto.
A ciò si aggiungono altri due fattori.
Il primo è un tema di stereotipi di genere di matrice culturale, spesso alimentato anche dalle stesse donne: l’uomo è spesso considerato il “responsabile economico” della famiglia. Pensate che il 54,1% delle donne non investe i propri risparmi (contro il 34% degli uomini).
E il secondo è quella forma di discriminazione occulta per cui le donne finiscono per avere minor accesso a incentivi, straordinari e premi di produzione.
Anche dal punto di vista finanziario – ci dice Magda Bianco di Banca d’Italia – l’accesso al credito, a parità di condizioni, è più difficile per le imprenditrici, nonostante che le imprese “al femminile” crescano di più, abbiano profili più green e sostenibili e offrano maggiore attenzione al welfare.
E e ciò determina un effetto di scoraggiamento, sia perché le donne sono meno propense al rischio, sia perché si aspettano più facilmente un rifiuto.
Per invertire questa tendenza è indispensabile incentivare percorsi di empowerment al femminile, ma anche aumentare le competenze finanziarie delle donne con progetti di alfabetizzazione finanziaria.
Non solo. Occorre anche sostenere attivamente politiche che tengano conto del gender mainstreaming. Già nel 1997, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni aveva definito il concetto di gender mainstreaming come “il processo attraverso cui sono valutate tutte le implicazioni per le donne e per gli uomini di ogni azione progettata, in tutti i campi e a tutti i livelli, compresa l’attività legislativa, politica e di programmazione”.
Ottobre è il mese dell’alfabetizzazione finanziaria e anche noi ce ne occuperemo con la collaborazione di Beppe Ghisolfi (Vice Presidente del gruppo Europeo delle Casse di Risparmio) e grazie al progetto Connessioni di Isper con il corso Donne e denaro. Come l’educazione finanziaria può aiutare lo sviluppo dei talenti di genere (4 e 5 novembre ore 9.30-13.00 via zoom)
Ma in questo scenario, che ruolo può avere l’innovazione per contrastare il gender gap?
“Lo strumento tecnologico – ha spiegato Mario Calderini, professore di Innovazione Sociale al Politecnico di Milano – non è né buono né cattivo”. Se non viene usata in maniera inclusiva, anche la tecnologia può amplificare le diseguaglianze.
Ad esempio, i crash test delle auto sono settati su un’ individuo maschio con un’altezza media superiore a quella femminile e, quindi, con un gap di distanza nella seduta da pedaliera e volante.
L’economia della conoscenza genera opportunità solo per chi ha familiarità con la scienza e la tecnica, che costituiscono uno dei più importanti driver dell’evoluzione.
Non solo, quindi, è necessario promuovere alla radice un avvicinamento delle studentesse femmine alle discipline STEM, ma lavorare anche molto sui role models (è di qualche giorno fa la notizia che Il Nobel per la Chimica quest’anno è stato assegnato alla biochimica francese Emmanuelle Charpentier e alla chimica americana Jennifer A. Doudna, che hanno messo a punto la tecnica che taglia-incolla il Dna che permette di riscrivere il codice della vita).
Competenze digitali e uso consapevole della tecnologia, competenze finanziarie ed empowerment sono le tre chiavi che consentiranno alle nuove generazioni di privilegiare modelli di imprenditorialità femminile sostenibile e di creare, così, circoli virtuosi per la promozione di politiche culturali, sociali e politiche che valorizzino i talenti delle donne.
Photo by Omid Armin on Unsplash