Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 2

Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 2

La ricerca di un management etico, che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni può essere veicolato anche dai principi del Raja yoga. Oggi ci concentriamo sui precetti del fare (Nyama), per portare un giusto equilibrio tra calma ed energia nel nostro agire professionale, con un occhio di riguardo al tema dell’essenzialità.

Genitori con il cuore

Nutrire la vita spirituale può essere un buon modo per nutrire anche il proprio percorso professionale, soprattutto valorizzando – per sé e per gli altri – quella mission che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare. Abbiamo già anticipato in un precedente post dal titolo “Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 1” come la ricerca di un management etico, che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni può essere veicolato anche da alcuni suggerimenti provenienti dai principi del Raja yoga, contenuti nel testo sacro, denominato”Yoga Sutra” di Patanjali, secondo il quale i primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, primariamente, sul rispetto dei 5 Yama e dei 5 Niyama .

Abbiamo già parlato degli Yama le “cose da non fare”, mentre i Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

I Nyamas sono cinque e agiscono a livello interiore:

1. Saucha = lavorare sulla pulizia interiore;

2. Santosha = gioiredi quel che si ha

3. Tapas = saper essere essenziali

4. Svadhyaya = dedicarsi allo studio e alla conoscenza di sè

5. Isvara pranidhana = praticare la resa.

 

Vediamoli uno per uno.

In sanscrito la parola Saucha significa purificazione e riguarda la pulizia del corpo, ma non solo.

Per avere un corpo pulito e puro è importante praticare con costanza le asana e nutrirsi con una dieta naturale ed equilibrata. Ma anche liberare la mente da pensieri tossici, così come abituarsi a riconoscere e a disinnescare le credenze limitanti che non ci consentono di entrare in contatto con il nostro potenziale di realizzazione.

Santosha significa capacità di accontentarsi, di saper stare con quel che c’è. Per applicare questo principio alla vita lavorativa il primo passo è capire cosa è superfluo. Una volta individuato ciò di cui non abbiamo bisogno occorre imparare a lasciare andare quel che non serve e a concentrare le energie là dove, come dice S. Covey ne “Le sette regole per avere successo”, possiamo ampliare la nostra sfera di influenza per passare dal management alla leadership di noi stessi.

Si potrebbe obiettare che accontentarsi voglia dire frenare l’ambizione e la prosperità. Ciò può essere vero, solo se confondiamo l’essere contenti con l’essere in fuga dalle proprie responsabilità: se abbiamo paura dell’impegno o del fallimento o non siamo capaci di essere profondamente ingaggiati da quel che facciamo potremmo dichiarare di essere contenti di quel che abbiamo, per paura di cambiare. La vera contentezza non significa pigrizia, ma un giusto equilibrio tra pacatezza ed energia.

Tapas significa austerità e riguarda l’esercizio della forza di volontà, il prefiggersi una meta, anche piccola, da raggiungere con costanza e dedizione. La pratica di Tapas ci insegna ad uscire dalla nostra zona di comfort e ad eliminare i modelli e le abitudini negative che spesso sosteniamo con un notevole dispendio di energie.

Tutti noi abbiamo limiti e condizionamenti che sostengono i nostri schemi mentali: la pratica dello yoga e della meditazione ci aiutano a guardarli senza giudizio e a trasformarli. Secondo la Psicosintesi di R.Assagioli la volontà è una qualità dell’essere umano che non può solo essere legata all’autodisciplina, ma che deve anche essere buona (cioè volta al bene), sapiente (cioè dotata di pensiero strategico) e forte (cioè determinata a trasformare gli impulsi in obiettivi).

Svadhyaya invece significa studio di sé stessi e riguarda il valore che diamo alla conoscenza.

Nella pratica di questo principio è racchiuso anche lo studio dei testi antichi e dei grandi maestri, ma soprattutto significa raccogliere dati di osservazione statistica di quel che siamo e di come reagiamo agli stimoli esterni: quanto siamo realmente in grado di autodeterminarci, quanto ci facciamo influenzare dal contesto, come possiamo valorizzare le nostre qualità? Gli studi sull’intelligenza emotiva ci aiutano a riconoscere, gestire e comunicare correttamente il nostro mondo emozionale, con l’obiettivo di rendere i nostri comportamenti efficaci rispetto al contesto e sostenibili per noi. E ciò è possibile solo grazie ad un continuo allenamento.

Infine Isvara (abbandono) Pranidhana (divino), significa abbandonarsi all’essenza di ciò che è, al Divino.

La nostra interiorità è legata all’esterno da un filo sottile: bisogna imparare ad arrendersi all’esistenza, così com’è, perché nulla accade invano. Ogni esperienza viene per insegnarci qualcosa e sta a noi comprendere la lezione che ci porta per evolvere.

Questa è indubbiamente la pratica più difficile da seguire; siamo così inclini a controllare ogni nostra azione ed il suo risultato che il lasciar andare non è per niente facile. Molti di noi hanno bisogno di “controllo nella vita”, e vivono continue battaglie tra mente ed emozioni.

La pratica consiste nel lasciare continuamente andare e nel non crearsi aspettative, proprio mentre la mente continuerà imperterrita a fare programmi, a chiedere rendiconti e a desiderare risultati.

Ciò non vuol dire, ancora una volta rimanere distaccati e poco coinvolti dal nostro agire.

Anzi, significa agire con il massimo interesse ma disinteressatamente, quasi come se, una volta intrapresa un’azione, i frutti della stessa fossero affidati ad una forza più grande.

E’ l’esperienza, ad esempio, della fiducia, come leva per far funzionare le organizzazioni: una volta messa a disposizione del team occorre lasciarla vivere di vita propria, avendo il coraggio di non interferire.

 

Il nostro cammino procede con altri suggerimenti. Prossimamente parleremo di come usare il respiro per riportare la nostra focalizzazione all’interno, per favorire la concentrazione, per combattere ansia e stress.

Photo by Pawel Chu on Unsplash

Pillole di spiritualità per il manager di oggi. Step 1

Pillole di spiritualità per il manager di oggi. Step 1

Imparare a fidarsi della propria energia può aiutarci nella realizzazione professionale e condurci lungo un percorso di management etico che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni.

Genitori con il cuore

Photo by Joshua Earle on Unsplash E’ possibile coniugare management e spiritualità? Di spiritualità se ne parla poco e spesso male, confondendo la spiritualità con la religione o con qualche oscura forma di esoterismo .

Recentemente, invece, un filone americano di studi ha lanciato l’idea di valorizzare il “capitale spirituale” come variabile fondamentale per la produttività delle organizzazioni aziendali e nei luoghi di lavoro.

Noi Occidentali siamo abituati a portare somma attenzione a ciò che succede all’esterno di noi e poca a ciò che succede all’interno. Reputiamo, cioè, maggiormente degno di nota il campo fenomenologico dell’esistenza, a discapito di tutto il mondo interiore, cui tendiamo a rivolgerci solo se soffriamo emotivamente o se cominciamo ad entrare in contatto con alcune aree di vulnerabilità del corpo, dovute all’avanzare dell’età (e quindi alla paura della morte) o alla presenza di malattie.

Chi, come me, ha sperimentato personalmente e professionalmente come yoga e meditazione possano essere uno strumento per portare risorse e consapevolezza nella vita professionale sa bene che non si pratica solo per mantenere il corpo in salute: i benefici si riflettono a livello fisico, ma soprattutto a livello emozionale ed energetico, oltre che spirituale. Praticando yoga ho imparato a fidarmi della mia energia, come veicolo per riportarmi in asse con la mia interiorità, quel nucleo immutabile e non soggetto alle vicissitudini del mondo esterno, che mi ha guidato verso una realizzazione più profonda della mia nota autentica e che mi sta conducendo lungo un percorso di management etico, che possa creare catene di valore umano.

Attraverso la pratica ho imparato a restituire tutto ciò che avevo imparato: rimettere in circolo le energie è diventato per me un tema di ecologia dell’anima.

È stato ed è un grande lavoro, più che altro perché è difficile togliere strati (o viluppi) che impediscono alla consapevolezza di espandersi, ma soprattutto per la difficoltà oggettiva di affrontare questa ricerca interiore, dovendo ogni giorno negoziare spazi e risorse tra le mille incombenze di libera professionista milanese, mamma di 3 figli!! Chi lavora su di sé attraverso pratiche spirituali è (spesso… ma non sempre!) circondato da un’aura di calma interiore, centratura ed equilibrio emotivo, perché entra in contatto con alcuni livelli energetici più sottili. Ma bisogna avere dei validi traghettatori.

Se siete interessati a questo percorso, vi consiglio di avvicinarvi ad alcuni testi della filosofia vedanta che offrono diverse chiavi di lettura, a seconda del livello di approfondimento e di crescita spirituale sostenibile per ciascuno.

Mi riferisco, in particolare, agli Yoga Sutra di Patanjali , testo di incerta datazione (collocabile tra il 600 a.c e il primo secolo d.c.) che raccoglie in 196 brevi aforismi tutti i principi spirituali alla base della filosofia dello yoga e della meditazione.

Secondo Patanjali, la mente razionale non può comprendere la necessità di integrazione di corpo, mente emozioni e anima: infatti egli definisce lo yoga come citta vritti nirodha ovvero la “cessazione delle fluttuazioni della mente”. I primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, inanzitutto, sul rispetto di alcuni precetti: 5 Yama e 5 Niyama .

Gli Yama possono essere tradotti come “cose da non fare” e sono considerati principi etici che hanno lo scopo di migliorare il comportamento.

Gli Yama sono 5:

Ahimsa (non violenza, non nuocere a sé o agli altri). Pensate a tutte le forme di violenza e di manipolazione soprattutto verbale cui assistiamo quotidianamente nelle nostre relazioni. Valorizzare la gentilezza e l’empatia nelle organizzazioni significa praticare Ahimsa.

Satya (verità, sincerità, autenticità): Quante volte nella comunicazione siamo ispirati a verità e quante invece, la mancanza di sincerità è una difesa che rende difficile la comunicazione e prelude l’ascolto? Praticare Satya significa anche riconoscere le leve che muovono il nostro sistema di credenze e valorizzare la nostra mission nel mondo professionale (è questo il tema della vocazione lavorativa).

Asteya (non rubare). Appropriarsi indebitamente di idee altrui o non riconoscere il valore dei contributi professionali di tutti gli anelli dell’organizzazione è un modo per non praticare Asteya.

Brahmacharya (continenza nella espressione delle energie). Il principio, genericamente riferito all’uso dell’energia sessuale, è invece applicabile a qualunque dispendio energetico che ci allontana dai nostri obiettivi di realizzazione professionale. Pensiamo alla teoria di Covey sulla gestione del tempo e alla necessità di focalizzarsi sulle priorità.

Aparigraha (non avidità nel possedere). Le dinamiche di potere sono la causa della maggior parte dei conflitti all’interno delle organizzazioni, perché generate da una visione ego-centrata della leadership. Passare ad una visione eco-centrata, ovvero orientata a far crescere il sistema nel suo complesso, invece che a nutrire l’ego del leader, è un modo per praticare Aparigraha di cui ci parlano già le teorie sulla leadership ispirazionale come la U-theory di Otto Scharmer.

I Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

Ne parleremo in un prossimo post e, se, avrete la pazienza di seguirmi, scoprirete come nutrire la vita spirituale sia un buon modo per nutrire anche e soprattutto il proprio percorso professionale e come valorizzare per sé e per gli altri quella missione che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare.

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