La  cura della relazione come cura di sè

La  cura della relazione come cura di sè

Se vogliamo cambiare il mondo esterno dobbiamo renderci, prima, disponibili a cambiare noi stessi. Le nostre relazioni possono facilitare questo processo, perché ogni essere umano è profondamente inter-connesso con gli altri e nutrito dalla cura e dall’attenzione che dona e che riceve.

Genitori con il cuore

,,La maggior parte delle persone non raccontano le loro storie per ottenere consigli: le raccontano per essere ascoltate. Più profondo è il livello di ascolto e di cura, maggiore è il livello di sicurezza che prova chi racconta. Ma per entrare in contatto con questo sentire, dobbiamo andare oltre la dimensione dell’Io e percepirci in una  dimensione psicologica più ampia e fondata sulla relazione, che Vittorino Andreoli chiama la “psicologia del Noi”.

La relazione è composta, infatti, da tre elementi: IO, TU e NOI. Ed è sul NOI, ovvero sulla dinamica relazionale, che vorrei focalizzare l’attenzione, perché spostare l’attenzione dal TU al NOI, consente di rifondare anche la relazione trasformativa con l’IO.

Se vogliamo cambiare il mondo esterno, dobbiamo essere disponibili a cambiare prima noi stessi. In questo, le relazioni possono costituire un facilitatore di cambiamento. Secondo lo psicologo Daniel Stern “la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri”. Anche la teoria dei neuroni specchio, scoperta nel 1992 dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti ci ha insegnato che ogni risonanza empatica  crea un legame cervello-cervello: nei due cervelli si attivano circuiti paralleli che portano le persone a contaminarsi vicendevolmente, rendendo le emozioni contagiose.

L’empatia è, dunque, la base della vita sociale e ci consente di realizzare quello che Martin Buber chiama il rapporto Io-Tu, cioè quello tra due soggettività diverse ma equivalenti, diverso dal rapporto Io-Esso, dove l’altro è mero oggetto.

Per essere portatori di questa visione, siamo tenuti a radicarla profondamente in noi e a lavorare, prima di tutto sulla nostra pratica personale, per creare, attraverso la relazione con l’altro, qualcosa di nuovo e di diverso che, inevitabilmente, finirà  per trasformarci. Tali considerazioni possono risvegliare in noi un maggior senso di responsabilità nei confronti della nostra vita interiore, visto che, a partire dal nostro stato d’animo, emozioni sentimenti e pensieri possono contribuire a migliorare o a peggiorare l’esistenza delle persone intorno a noi.

Il prendersi cura della relazione non si può, allora, ridurre alla dimensione di un  gesto legato a situazioni temporanee, ma deve fondarsi su una pratica costante.

Nell’omonimo mito, raccolto da Higinus nel II secolo d.C., Cura, mentre attraversava un fiume, scorse del fango argilloso. Con un’idea ispirata, lo raccolse e cominciò a forgiare una forma umana, pregando Giove di infonderle parola e spirito. Ben presto, però, Giove e Cura cominciarono a litigare, pretendendo ciascuno di dare il nome alla creatura che avevano contribuito a creare. Mentre discutevano, comparve Terra, anch’ella desiderosa di dare il suo nome a ciò che era stato plasmato con la sua materia. Fu Saturno a fare da giudice. Ed egli saggiamente sentenziò che Giove prendesse lo spirito di Cura alla sua morte, che a Terra venisse restituito il corpo e che Cura restasse accanto alla creatura durante la vita intera.

Il simbolo potente che il mito sembra esprimere  ci porta a riflettere sul bisogno profondo dell’uomo di essere sostenuto dalla cura e di sentirsi sollecitato, coinvolto, responsabilizzato dalla presenza dell’altro.

Quando le persone sono accettate e valorizzate, tendono, infatti, a sviluppare un atteggiamento di maggior cura verso se stesse. Se si sentono ascoltate empaticamente, diventa loro possibile prestare un ascolto più accurato al flusso delle loro stesse esperienze interiori e, man mano che una persona comprende sé stessa, la sua manifestazione esterna diventa più congruente.

L’effetto visibile è quello di una maggiore autenticità e genuinità.

E’ sempre, per me, incredibile osservare come – nella pratica del counseling, della facilitazione nella gestione dei conflitti e della formazione – il mettersi in una disposizione d’animo aperta, di puro ascolto, non condizionato da pregiudizi, ma soprattutto silenziosa, consenta di entrare velocemente in una condizione di fiducia, che apre la strada ad una trasformazione. Il semplice stare nel presente con l’altro, nello spazio sacro del suo vissuto, facilita l’apertura e il fiorire di istanze di cambiamento, che riguardano entrambi.

In tutta onestà devo dire che restare concentrati sull’altro, senza sovrapporre il proprio mondo interiore, implica un disciplinato e costante lavoro su di sé, non scevro da pietre d’inciampo. Per attivare questo stato di reale disposizione all’ascolto occorre sviluppare costantemente in noi  le qualità che consentono di restare ben disposti verso gli altri, una humanitas che è sì devozionale comprensione dell’altro, ma è anche accettazione di sé stessi come esseri umani mortali  e imperfetti.
Occorre in altri termini sviluppare quello che Adler chiama “il coraggio dell’imperfezione”.

Lavorare sull’ascolto profondo durante un colloquio di counseling significa,  ad esempio, diventare trasparenti, lasciando che la persona crei da sé le basi e il percorso per il proprio cambiamento, accettandone i rischi. In altre parole, occorre lavorare sull’Empowerment, sul potenziamento delle risorse dell’altro e sulla sua capacità di affrontare proficuamente i cambiamenti, trasformandoli in opportunità di crescita.

Ciascuno può essere artefice del proprio destino, se impara ad attivare un atteggiamento proattivo nei confronti della realtà, basata sulla percezione di autoefficacia dei suoi comportamenti e sulla motivazione a raggiungere gli obiettivi, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni. Orientare il proprio potenziale umano verso scelte consapevoli, commisurate agli strumenti di cui si dispone e alle opportunità che si presentano, genera benessere.

Ma abbiamo anche visto come, anche per chi facilita questo processo, spostare il focus dal Tu al Noi inneschi un processo di trasformazione della relazione, che inevitabilmente lo trasforma.

Parlare di cura, di relazioni, di benessere delle persone nelle organizzazioni non è così scontato, in un momento storico che, a causa della pandemia e della rinnovata bellicosità, ci ha tolto la fiducia nel Noi, relegandoci nell’isolamento del Tu.

E’ allora importante allenare la predisposizione e l’orientamento alla cura dell’altro e tenere costantemente presente – come ci ha ricordato Papa Francesco – che “nessuno si salva da solo”.

Come fare? Provate con questo semplice esercizio di ascolto: quando siete di fronte a qualcuno che vi sta raccontando di sé, provate a non intervenire in alcun modo, mantenendo una postura quieta e uno sguardo amorevole sulla persona che avete di fronte. Provate a dimenticarvi di ciò che pensate che l’altro si aspetti che gli diciate e rimanete, invece, in contatto con la sua energia e le sue emozioni, senza pretendere di dare soluzioni, ma rimanendo semplicemente partecipi spettatori. Provate poi ad annotare se qualcosa è cambiato in voi (e nell’altro).

 

(*) Il presente articolo prende spunto dall’intervento di moderazione svolto dalla sottoscritta in occasione della Tavola Rotonda conclusiva del Convegno “La cura della relazione e la relazione di cura: dialogo tra giuristi, medici e psicoterapeuti” tenutosi a Milano il 25 ottobre 2022 presso l’Università degli Studi di Milano e dalla pubblicazione degli atti del Convegno. Lo trovate  pubblicato in  forma estesa con il titolo Dal Tu al Noi: pratica della cura delle relazioni e processi di cambiamento per le persone e le organizzazioni in A. Maniaci (a cura di), La cura della relazione e la relazione di cura (Dialogo fra giuristi, medici e psicoterapeuti), Pacini Editore, 2023, p. 297 e ss.

 

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