La vera forza della gentilezza

La vera forza della gentilezza

La pratica della gentilezza è ormai necessaria , non solo come antidoto all’odio diffuso, ma anche come risorsa per il nostro ben-essere, per costruire relazioni feconde, per migliorare efficienza e apprendimento negli studi e nella vita professionale. Ecco il mio intervento all’Aperitivo letterario del 12 novembre 2019 ispirati da La forza della gentilezza di Piero Ferrucci, Mondadori.

Genitori con il cuore

Perché parlare di gentilezza

La gentilezza, diceva Goethe è una catena che tiene uniti gli uomini. Nella sua accezione comune la gentilezza richiama la buona educazione: un insieme di gesti da Galateo che insegnavano i nostri nonni.

Ma questa è una visione riduttiva. Provate a ricordare che cosa avete provato l’ultima volta che qualcuno è stato gentile con voi. Sicuramente vi sarete sentiti visti, riconosciuti nel vostro valore e avrete provato gratitudine nei confronti di quella persona.

E viceversa, cosa avete provato l’ultima volta che siete stati voi gentili con qualcun altro? Il cuore probabilmente si è aperto ad uno stato di benessere e attenzione verso il mondo fuori e avrete percepito connessione con l’altro.

La gentilezza è un ingrediente essenziale per non sprecare il capitale di rapporti umani che possediamo. La gentilezza fa bene a chi la riceve, ma anche a chi la dona.

Anche la scienza ha confermato che le persone gentili stanno meglio e vivono più a lungo.

I teorici dell’evoluzione mostrano che il dna delle persone gentili ha grandi possibilità di riprodursi, mentre i neurologi riscontrano un’attività più intensa nel lobo posteriore superiore temporale del cervello degli altruisti. E il punto è proprio questo: il fatto stesso di essere gentili è il beneficio della gentilezza. E quindi le prove scientifiche potrebbero anche non essere necessarie, anche se legittimano un modello di riconoscimento delle nostre emozioni che ci aiuta a capire come siamo fatti.

Se la nostra natura è quella di essere aperti, disponibili e empatici verso gli altri, oppure no.

La falsa gentilezza

Per parlare di gentilezza dobbiamo sgomberare il campo da tutte le forme di falsa gentilezza.

Non è gentilezza una generosità calcolata, volta ad ottenere vantaggi dagli altri.

Non è gentilezza la manifestazione di rabbia nascosta e non espressa, mascherata falsamente: questo è ciò che gli psichiatri chiamano una “formazione reattiva” ovvero il vestito per contenuti inconsci inaccettabili e, per ciò, adattati.

Non è gentilezza la passività o debolezza, quella di manzoniana memoria del “vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro”.

La gentilezza è, invece, un insieme di qualità sinergiche che possono essere agite singolarmente, ma che hanno ancora più potere trasformativo se agite insieme.

Le qualità di cui ci parla Piero Ferrucci sono innocuità, appartenenza, contatto, fiducia, empatia, calore, gioia, fiducia, sincerità, pazienza, flessibilità, generosità, gratitudine, servizio. Dedicheremo un’attenzione particolare a Innocuità e Gratitudine, la prima perché spesso malintesa nell’accezione comune, la seconda perché è il modo più facile per essere felici.

Innocuità

Ahimsa paramo dharma, diceva Ghandi riferendosi al principio universale della non violenza, tradotto dal sanscrito come Non nuocere è la legge suprema.

Ahimsa è anche il primo degli Yama, le pratiche etiche, le cose da non fare per un sincero ricercatore spirituale che si avvicina allo Yoga integrale. Nella sua accezione di Innocuità, il non nuocere è una capacità di segno negativo, ma non passiva: innocuità è un comportamento attivo che esige un lavoro di autoregolazione e di concentrazione attenta. Richiede intelligenza, consapevolezza, padronanza di sé e bontà d’animo.

“L’innocuità – dice Ferrucci – è la risposta ad una domanda fondamentale che ognuno di noi più o meno consciamente si pone: qual è il mio atteggiamento verso ogni essere vivente: di competizione e confronto? Di giudizio e critica? Di sfruttamento o vittimismo? (…)di paura e sospetto? Oppure di supporto, amicizia, calore e collaborazione? Questa risposta giace nella profondità del nostro essere ed è lì che dobbiamo andarla a scoprire.Il nostro implicito atteggiamento verso gli altri ci accompagna sempre, condiziona i nostri rapporti con gli altri, colora la nostra vita”. Gratitudine

Passando alla gratitudine, siamo sempre colpiti dall’intensità emotiva e dalla bellezza di questo sentimento. Ma il sentimento è solo l’aspetto più visibile della gratitudine. In realtà essa è prima di tutto un’operazione della mente e consiste nel riconoscere valore a ciò che la vita ci offre.

Tutto è perfetto così com’è, dicono gli orientali, anche se adesso non comprendiamo.

“La gratitudine – dice Ferrucci – è per definizione antieroica. Non dipende da quanto io sono bravo o forte o speciale. Anzi è basata sulla mia mancanza e sulla mia capacità di chiedere aiuto. Se non nascondo a me stesso quanto sono vulnerabile e incompleto, allora posso ricevere il beneficio che la vita mi offre ed essere grato”.

Nella relazione, spesso perdiamo questa opportunità perché, per coglierla pienamente dobbiamo accettare ancora una volta di essere senza difese e che la nostra felicità possa dipendere da qualcun altro.

Allora perché la gentilezza è una qualità contro-corrente?

Adam Phillips, in un articolo pubblicato con Barbara Taylor su Internazionale (dicembre 2018) e prima ancora sul Guardian dice “Nella nostra immagine degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione.”

La gentilezza è rischiosa, perché abilita un paradigma di dipendenza dagli altri. Per essere gentili, dobbiamo essere in grado di farci carico carico della vulnerabilità degli altri, e quindi della nostra. E ciò, dice Philips è diventata un segno di fragilità.

La società moderna occidentale rifiuta questa verità fondamentale e mette l’indipendenza al di sopra di tutto. Per gran parte della storia occidentale la gentilezza è stata legata alla cristianità, che per secoli ha fatto da collante culturale, tenendo uniti gli individui di una società.

Ma dal cinquecento in poi il comandamento cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso” subisce la concorrenza dell’individualismo. Il Leviatano (1651) di Thomas Hobbes considera la generosità cristiana psicologicamente assurda. “Homo Homini Lupus” sostiene Hobbes: l’esistenza è una “guerra di tutti contro tutti”.

L’individualismo è un fenomeno recente, legate alle teorie sul capitalismo e visto come chiave di lettura della società moderna in opposizione al collettivismo. In realtà l’illuminismo, generalmente considerato l’origine dell’individualismo occidentale, difendeva le “inclinazioni sociali” contro gli “interessi privati”.

Anche se il sospetto più radicato nei confronti della gentilezza è che sia solo una forma di narcisismo camuffato, la gentilezza continua a esse­re un’esperienza di cui non riusciamo a fare a meno, sebbene il nostro sistema di valori contemporaneo, contribuisce a far sì che sembri utile in alcune circostanze, ma anche potenzialmente super­flua.

Conclusioni

Nella visione di molti cammini spirituali, ogni persona è tutti gli altri.

Così come in ogni cellula è contenuto il Dna dell’intero organismo, ogni individuo contiene in sé l’umanità intera.

Se siamo in grado di migliorare la vita di qualcun’altro e di accendere una luce nel suo cuore, questa è già una vittoria, una risposta umile e silenziosa alle sofferenze e ai disagi del nostro pianeta. “Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile” Dr Wayne W. Dyer

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Active learning e soft skills: la filiera della formazione dalle aziende alle università

Active learning e soft skills: la filiera della formazione dalle aziende alle università

Il mondo del lavoro cambia molto velocemente. E cambiano altrettanto velocemente il tipo di competenze richieste per affrontarlo. Il modo aziendale e quello universitario rischiano di essere ancora molto distanti tra loro anche se conoscere le migliori pratiche aziendali potrebbe aiutare gli studenti ad apprendere in un altro modo.

Genitori con il cuore

Stiamo passando da un mondo basato su valori comuni ad un mondo multiconcettuale, caratterizzato da narrative complesse.

Collettivamente ci avviciniamo – inesorabilmente – a una nuova fase della cooperazione globale: la globalizzazione 4.0. Ogni anno il World Economic Forum redige un rapporto relativo al futuro del mondo del lavoro (The future of Jobs annual report 2018 è l’ultimo) in cui analizza le competenze più adatte a fronteggiare le sfide proposte. Sicuramente emergeranno nuove categorie di lavori che parzialmente o totalmente sostituiranno quelli attuali. E allora dobbiamo tutti imparare a percepirci, più che in ruoli professionali cristallizzati, come un insieme di competenze sovrapposte e modulabili, a seconda dei ruoli richiesti. Le nuove competenze e la flessibilità nel proporsi come un mix di competenze, saranno il driver che modificherà il nostro modo di lavorare. Molte di esse sono competenze soft: le soft skills possono essere definite come una combinazione dinamica di competenze cognitive e meta cognitive, interpersonali e personali, intellettuali e pratiche, che ci aiutano ad adattare positivamente i nostri comportamenti alle inevitabili sfide della vita personale o professionale. E allora viene da chiedersi perché le scuole e le università (con alcune rare eccezioni) non riescono a dotare gli studenti anche di queste competenze?

In molte realtà educative, di qualunque ordine e grado, le modalità di insegnamento sono obsolete e frontali e poco abituano gli studenti ad essere coinvolti direttamente nel percorso di apprendimento. Invece, è ormai è riconosciuto che le modalità di apprendimento più feconde e che maggiormente predispongono all’acquisire, oltre che contenuti, meta competenze sono quelle di “active learning”. L’active learning è ogni metodo formativo che rende gli studenti parte attiva dei processi di apprendimento (imparare facendo, uso di supporti digitali, lavoro di gruppo, utilizzo di simulazioni o role plaiyng ). Veicolare l’apprendimento in maniera attiva, stimolando gli studenti ad usare il pensiero critico è già un modo per attivare l’utilizzo delle competenze trasversali, quali ad esempio, la capacità di risolvere i problemi, ma anche le capacità relazionali e di leadership. Tutte queste abilità possono essere apprese e attengono al mondo dell’intelligenza emotiva, perché presuppongono la capacità di riconoscere, gestire e comunicare correttamente i nostri pensieri e le nostre emozioni.

Ho avuto la fortuna di essere coinvolta in un interessante progetto europeo Erasmus+ denominato Elene 4 Life, condotto da partner internazionali tra cui Fondazione Politecnico di Milano, Università Lumsa di Roma e altre Università internazionali.

Il report pubblicato prima delle vacanze è intitolato “Transnational Analysis of the Transferability to Higher Education of Corporate Active Learning on Soft Skills”.

Il lavoro è stato condotto tra la fine del 2018 e marzo del 2019 attraverso una serie di interviste a HR managers, Ceo e formatori di vari paesi europei. L’analisi ha consentito di fotografare lo stato dell’arte delle metodologie più innovative e delle attività che promuovono l’acquisizione delle soft skills in ambito aziendale e esplora la possibilità di trasferirle al mondo universitario. Obiettivo è anche fornire alle Università esempi, scenari e buone pratiche, per lo sviluppo delle competenze trasversali maggiormente utilizzate nei training aziendali.

Nella mia esperienza sia come formatrice in contesti aziendali che come docente di intelligenza emotiva a studenti di diverso livello, ho sempre avuto modo di osservare che un apprendimento precoce di come utilizzare la propria intelligenza emotive fa la differenza nello spianare la strada della consapevolezza sulle proprie risorse e sul modo migliore per utilizzarle. E quindi consente di essere maggiormente autoefficaci e più sereni nel raggiungimento dei propri obiettivi personali e professionali

Nella definizione che ne da Daniel Goleman, l’intelligenza emotiva è il processo di compensione e trasformazione in azioni di pensieri ed emozioni relative a sé o agli altri.

Il progetto è molto articolato e sarà oggetto di approfondimenti successive in altre sedi.

Per il momento voglio soffermarmi su due considerazioni.

1. Allineare il mondo universitario a quello aziendale consente di ritornare ad una visione socratica dell’educazione: l’etimologia della parola educere vuol dire proprio tirar fuori e non infarcire di nozioni. In questo senso, le modalità di apprendimento basate sul learning by doing risultano senz’altro più efficaci e maggiormente accessibili.

D’altra parte, emerge chiaramente, anche dall’analisi proposta, che questa modalità di apprendimento può trasformarsi in un percorso di crescita sia per chi impara, che per chi insegna. L’insegnante dovrebbe, allora, trasformarsi in un facilitatore di apprendimento che veicola, unitamente ai contenuti, il mind-set utile a convertirli in esperienze. Mi chiedo però, nell’esperienza italiana, in cui gli insegnanti sono spesso poco motivati e sotto pagati quale sia il modo più opportuno di inserire dei percorsi che consentano loro di speriementare, prima di tutto su di sé, l’apprendimento di quelle competenze trasversali che andrebbero poi ad insegnare agli studenti (pensiero creativo e laterale, flessibilità relazionale, capacità di ascolto e di gestire i conflitti).

2. La seconda considerazione riguarda l’utilizzo di tool digitali, ovvero di strumenti complementari che possano supportare l’apprendimento attivo. Nell’analisi presentata naturalmente se ne sponsorizza l’utilizzo, non solo perché abilitano l’utilizzo delle competenze digitali, anch’esse indispensabili nel mondo del lavoro che cambia, ma anche perché facilitano il lavoro di gruppo, l’interazione e la creazione di communities. Ho personalmente collaborato con una società che ha sviluppato un tool (www.mychangemeter.com) utilizzato per misurare la possibilità di modificare alcuni comportamenti pre-stabiliti. Il tool consiste in una app da caricare sullo smartphone che viene utilizzata lungo un lasso di tempo che va da 1 a 5 settimane: la app consente di autvalutare i propri comportamenti all’inizio e poi quotidianamente e di prendere consapevolezza dei cambiamenti comportamentali che avvengono durante tale periodo. Quello che è stato molto interessante osservare è che tanto più si focalizza l’attenzione sulla necessità di osservare il comportamento (per valutarlo) tanto più ciò produce reali modifiche nello stesso. Quindi è proprio il livello di consapevolezza dell’osservatore a cambiare il contenuto dell’osservazione. Del resto questo è anche il principio alla base di tutte le attività di coaching o counseling, che aiutano le persone a cambiare dal profondo.

 

Progetti come Elene4life dovrebbero servire a supportare la formazione di chi si affaccia al mondo del lavoro, specialmente per quanto concerne l’utilizzo delle competenze soft. Introdurre, sviluppare e potenziare le metodologie di active learning mutuandole anche dal settore aziendale è uno dei modi per farlo, ci auguriamo, a partire dall’Università.

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Quanto siamo capaci di ricominciare?

Quanto siamo capaci di ricominciare?

Una recente indagine presentata sul tema del “Coaching in azienda” da Armando Pintus Katherina Tsalikis in sinergia con Aidp Lombardia, mostra come il coach venga ancora richiesto dalle aziende, prevalentemente per il raggiungimento di obiettivi di leadership (28%) e di performance (17%). Perseguire obiettivi di lavoro sostenibile e ben-essere in azienda richiede, però, l’attivazione di un nuovo modello di pensiero.

Se, come riconosciuto dal WEF (World Economic Forum) l’intelligenza emotiva è tra le 10 competenze più importanti per affrontare l’inevitabile flessibilità richiesta dal mondo del lavoro, è importante attivare un nuovo driver e imparare ad allenare la nostra capacità di ricominciare.

Genitori con il cuore

A settembre, partecipando alla kermesse in Triennale IL TEMPO DELLE DONNE si è parlato molto di restartability, ovvero la capacità di saper ricominciare.

Per qualcuno è una competenza innata, per altri va appresa.

Nella mia esperienza come counselor e come formatrice ho due privilegiati punti di osservazione: 1) seguo prevalentemente donne per aiutarle ad armonizzare la loro mission nella professione e nella vita personale; 2) ho 50 anni e, da qualche anno, ho rimesso anche io in gioco tutta la mia attività professionale per aprirmi a nuovi scenari.

Quindi, presto particolare attenzione ai trend generativi di nuovi posizionamenti, nella vita e nel lavoro.

Imparare a ricominciare è diventata ormai una competenza chiave nel mercato del lavoro. Sia per chi è sul mercato da molto tempo, che per chi ha la necessità di affrontare nuovi scenari, l’incertezza del contesto di riferimento, la richiesta di sempre nuove competenze e la cornice professionale sempre più volatile, rendono necessario affrontare frequenti cambiamenti.

Con l’inserimento dell’Intelligenza Emotiva al 6° posto nella classifica delle competenze vincenti sul lavoro nel 2020, anche il World Economic Forum ha avvalorato un trend che da qualche anno si fa sempre più marcato: in azienda, così come nella scuola ed in ogni contesto familiare e sociale, l’attenzione verso le competenze trasversali non può più essere considerata di importanza secondaria. Mentre ci avviciniamo molto più velocemente di quanto pensiamo nel cuore della Quarta Rivoluzione Industriale, caratterizzata dal protagonismo dell’automazione in tutte le attività umane e dagli straordinari sviluppi dell’Intelligenza Artificiale, diventa ancora più urgente preservare tutte quelle capabilities relazionali che ci consentano di guidare, anziché subire, il cambiamento.

Ma anche nella vita personale, spesso a 50 anni o giù di lì ci viene proprio voglia di cambiare tutto e ricominciare, forse perché sono cambiate le nostre esigenze o semplicemente perché siamo più consapevoli dei nostri bisogni.

Saper ricominciare serve per cogliere nuove opportunità e per uscire da «vicoli ciechi»: per ricostruirsi, bisogna riesaminare i vincoli che pensiamo di avere e capire se siano reali o auto-imposti. Quante volte ci diciamo «questo non lo posso fare perché non ho l’età/non ho l’energia/non ho le conoscenze»?

Alcuni vincoli sono molto reali, ma, se li elenchiamo e li esaminiamo criticamente (magari con l’aiuto di qualcuno che ci aiuta a “vedere”) saremo forse sorpresi di scoprire quanti siano frutto di paure, condizionamenti e pregiudizi.

Potremo allora stupirci di avere a disposizione una capacità creativa e una quantità di energie inimmaginabili, da veicolare verso obiettivi di maggiore soddisfazione per noi e per il contesto in cui operiamo.

Anche le organizzazioni hanno bisogno di risorse umane capaci di riconfigurare il talento organizzativo frequentemente e velocemente. Servono manager in grado di supportare chi deve ricominciare e figure professionali di supporto come (counselor e coach) in grado di attivare in chi già le possiede o di insegnare a chi non le possiede tali competenze.

Questo, a mio avviso, è anche uno degli scenari più promettenti per il futuro di counselor e coach che lavorano in ambito aziendale.

Ma è anche un processo di rivoluzione culturale impegnativo, molto sfidante ma del tutto inevitabile.

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