Dedicato a tutti gli eroi in viaggio

Dedicato a tutti gli eroi in viaggio

Siamo tutti eroi in viaggio. Il viaggio dell’eroe è un viaggio interiore verso le profondità oscure dell’essere, per resuscitare poteri dimenticati e riscoprire parti di sé. Ecco una sintesi dell’intervento mio e di #saraloffredi all’Aperitivo letterario del 28 gennaio 2020, ispirate da Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler e L’eroe dai mille volti di Joseph Campbel.

Genitori con il cuore

Le storie degli uomini variano ma il viaggio dell’eroe è lo stesso. L’eroe è il simbolo di quell’immagine divina e redentrice che è nascosta dentro ognuno di noi e che aspetta solo di essere trovata e riportata in vita.

Il testo di Vogler, Il viaggio dell’eroe prende spunto dal testo di Joseph Campbell L’eroe dai mille volti, pubblicato per la prima volta nel 1949. Negli anni ’80 Vogler, un consulente per le sceneggiature della Disney, si interessa agli studi dei miti nelle popolazioni di tutto il mondo fatti da Campbell (uno dei più grandi studiosi di mitologia comparata), e trasforma il modello in un libro di grande successo, utile sia per l’analisi dei film che per la costruzione di qualsiasi trama narrativa.

Ogni narrazione che si rispetti segue lo schema del viaggio dell’eroe e ci coinvolge profondamente, quando sentiamo che parla a qualcosa di molto vicino a noi. Spesso i personaggi delle storie non si limitano a rispecchiare i nostri sentimenti, ma ci mostrano anche come elaborarli – specialmente quelli più dolorosi e difficili – per accompagnare la nostra evoluzione ed entrare in un mondo più vasto fatto di infinite possibilità.

Gli archetipi e il mito

Il Viaggio dell’eroe è universale, perché le funzioni e i ruoli narrativi del suo modello sono archetipi. Carl Jung ha usato il termine “archetipi” per intendere antichi modelli di personalità che costituiscono l’eredità condivisa dell’umanità. Secondo Jung esiste un inconscio collettivo simile a quello individuale: i miti e le fiabe rappresentano i sogni di un’intera cultura.

Per spiegare che cos’è un archetipo, Campbell utilizzava l’esempio del passero appena uscito dall’uovo che, vedendo la forma di un’aquila, creata artificialmente dall’uomo, si nasconde spontaneamente, mentre se vede la forma di un altro passero, si mette a cinguettare. La metafora del Viaggio dell’eroe sarebbe l’equivalente della forma del passero per noi uomini.

James Hillman, allievo di Jung e autore de Il codice dell’anima, sostiene che per apprezzare J. Campbell dobbiamo andargli incontro sul terreno dell’immaginazione.

Il tema dell’eroe è molto importante per la sopravvivenza della nostra civiltà, costruita sul mito eroico, perché è la forza immaginale che ispira le grandi imprese per il bene pubblico. “Recuperando il mito dell’eroe -dice Hillman – Campbell ha protetto la civiltà dal nichilismo della scienza materialisistica, dalla redenzione ultramondana del cristianesimo e dalla tirannia della mercificazione capitalistica dei valori.” Il mito dice la verità con la chiarezza di un mondo animato, vivo, bello, fondato su una natura animica e dotata di spirito.

Lo schema del viaggio

Tutte le storie sono riconducibili a uno schema narrativo elementare. L’Eroe riceve una Chiamata che lo strappa al suo Mondo Ordinario, istruito da un Mentore vince la sua paura, supera la Prima Soglia ed entra nel Mondo Straordinario, poi accede alla Caverna più Profonda, affronta la Prova Centrale, ottiene la Ricompensa e, dopo aver attraversato una Resurrezione, torna a casa con l’Elisir.

Una parte fondamentale del viaggio avviene durante l’accesso alla caverna più profonda. C’è un punto, di solito a metà della storia, dove l’eroe ha un’illuminazione, entra in lui una nuova prospettiva o comprensione: il Mondo Straordinario gli si svela dinnanzi e può sembrare che la storia sia finita qui, perché una nuova idea ha fatto breccia nella coscienza dell’eroe, che ha il sentore di come potrebbe essere la sua vita. Ma non è così. C’è ancora molto lavoro da fare: l’eroe deve scendere nella caverna più profonda, perché la trasformazione non avviene senza la rinuncia alle vecchie abitudini. Ed è qui tipicamente che avviene la caduta: l’ego non si libera facilmente delle vecchie percezioni e si crea un conflitto tra il proprio sé precedente e quello nuovo che sta lottando per emergere. Quando capiamo la verità su noi stessi, spesso la vita diventa molto più difficile, prima di migliorare: la trasformazione esige la morte di un vecchio sistema, perché ne possa emergere uno nuovo. Quindi il compito fondamentale dell’eroe è trovare un altro modo di vivere e tornare a raccontarlo. L’eroe affronta sempre un percorso di iniziazione, presente in molte culture: muore a sé stesso per rinascere uomo/donna: esce da una posizione di dipendenza psicologica per rinascere autonomo. L’antagonista e l’ombra

Nelle narrazioni che funzionano, l’eroe non è uguale a sé stesso all’inizio e alla fine del viaggio: ha illuminato parti di sé inconsce, che agivano contro di lui – impersonificate nell’antagonista – e questa consapevolezza ne fa una persona diversa. Nel processo per divenire esseri umani compiuti, siamo tutti eroi che incappiamo in guardiani interiori, in mostri e in aiutanti. Tutti i cattivi e tutti gli amici dell’eroe sono dentro noi stessi. La prova psicologica che tutti noi dobbiamo affrontare è fondere queste parti divise in un’entità completa e equilibrata o, come direbbe la Psicosintesi, integrare la molteplicità delle nostre subpersonalità in un sé unificato e consapevole di sé.

Il volto negativo dell’ombra, nella narrativa, si proietta su cattivi e antagonisti che, mettendo in pericolo l’eroe, lo spingono a dare il meglio.

In un racconto ben strutturato (così come nella vita) i personaggi ombra hanno in sé una parte di luce.

L’ombra può rappresentare l’influsso dei sentimenti repressi. Traumi o sensi di colpa, se ricacciati nell’oscurità dell’inconscio, si trasformano in energia dannosa che ci indebolisce; se portati invece alla luce della conoscenza, si polverizzano come i vampiri delle narrazioni più spaventose.

Anche nella visione psicosintetica ogni processo evolutivo deve partire da una visione dicotomica per arrivare ad una sintesi. Le polarità apparentemente oppositive, che caratterizzano qualsiasi organismo vivente, presente in natura, e qualsiasi relazione non sono che fisiologici strumenti per garantire l’evoluzione.

E’ proprio nella caverna dove avete paura di entrare, che si trova il tesoro che state cercando. L’effetto della vittoriosa avventura dell’eroe è quindi di far fluire nuovamente la vita nel corpo del mondo. E voi, siete pronti ad ascoltare la chiamata, ad accettare le sfide, a dominare la paura e a rivendicare il tesoro che state cercando?

@saraloffredi @rocard68

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Trasformare l’aggressività è possibile?  Si, allenandosi a coltivare il bene

Trasformare l’aggressività è possibile?
Si, allenandosi a coltivare il bene

Le pulsioni di odio, rabbia e aggressività nascono spesso da modelli educativi inadeguati e da esperienze traumatiche, che a loro volta originano da un bisogno di essere rispecchiati, non soddisfatto nel modo giusto. Cosa possiamo fare per renderci consapevoli di questo bisogno e trasformarlo in un sentimento adulto di riconoscimento e rispetto di sé e del contesto sociale di cui facciamo parte?

Ne parliamo all’Aperitivo letterario del 13 settembre 2018, ore 19.30 presso Cafè Bamboo, Milano.

Genitori con il cuore

La parola aggressività deriva dal latino “adgredi”, ovvero “andare verso”.

Nel nostro immaginario questo moto richiama alla mente sentimenti distruttivi incontenibili, ma può anche evocare emozioni benigne: andare verso il mondo per opporsi ad esso e difendere il proprio territorio da attacchi esterni o negoziare il proprio spazio nel rispetto degli altri, da cui comunque, abbiamo bisogno di essere accettati.

Distruttività e sofferenza umana possono essere comprese più consapevolmente se ne indaghiamo le origini.

“Se partiamo dall’assunto che la nostra vera natura non è aggressiva, ma compassionevole, il nostro rapporto con il mondo cambierà sensibilmente”. Dalai Lama

Contrariamente a quanto sostenuto da Hobbes, filosofo inglese del ‘600, che riteneva l’HOMO HOMINI LUPUS (ovvero che la natura dell’uomo sia sostanzialmente malvagia e che si ridimensioni, nella relazione con i suoi simili, solo per necessità), studi recenti di psicobiologia e neuroscienze, ci portano a riconoscere un nucleo fondante dell’uomo profondamente sociale e aperto all’altro.

I comportamenti aggressivi sarebbero dunque frutto di cattive abitudini educative o di traumi che feriscono profondamente il nostro bisogno di essere amati e di amare.

Ne parleremo approfonditamente con la dott.ssa Fiorella Pasini (psicologa e psicoterapeuta), con cui faremo qualche riflessione sul suo testo Un essere unico. Dal trauma all’aggressivitànel corso dell’Aperitivo letterario del prossimo 13 settembre presso Cafè Bamboo.

Prendendo spunto dal suo libro, vi anticipo, però, qualche riflessione.

Esiste senz’altro in ogni essere umano un bisogno “agonistico” di affermazione, di esserci e di essere riconosciuto nel contesto dei pari, ma fa parte di un altro bisogno, altrettanto importante che è quello di far parte di un gruppo, di stare al mondo insieme agli altri, di appartenere ad una compagine sociale.

Se un bambino, da piccolo, ha avuto qualcuno che si è preso cura di lui, rispecchiando profondamente questo bisogno, crescerà con la fiducia di relazioni buone, stabilendo rapporti paritari dove non è necessario sopraffare, né essere sopraffatti.

Viceversa se ciò non è stato possibile, la forza buona dell’aggressività che lo spinge naturalmente ad andare verso gli altri si trasformerà in una spinta propulsiva violenta e autodistruttiva, costruita sul modello di relazioni squilibrate.

E allora che fare? Se ci rendiamo effettivamente conto che non è stato possibile sperimentare un tipo di attaccamento sicuro, come possiamo, in età adulta porvi rimedio?

Due sono le considerazioni da fare.

Da una parte è importante riflettere sul fatto che, in una personalità formata, la trasformazione della pulsione aggressiva può avvenire in qualunque momento, solo se si attiva quel processo di autoconsapevolezza che ci consente di osservarci dall’esterno e di riconoscere e accettare quella sofferenza antica, curandola come una ferita. Il processo di riconoscimento può anche avvenire grazie ad una persona, ad un evento, ad una situazione esterna che funge da “centro unificatore”, da catalizzatore cioè di quel processo di autoriconoscimento del senso di sé, attraverso le connessioni empatiche adatte a quel momento: insegnanti, amici, gruppi di pari e, in senso più ampio, la comunità in cui viviamo e le esperienze che facciamo possono ridarci fiducia nella connessione profonda con il nostro nucleo fondante, quello che non è stato riconosciuto nella sua essenza primigenia.

Se ne deduce che la relazione empatica e l’autentica condivisione consente a ciascuno di noi di fungere, nel momento presente, da attivatore del processo di trasformazione di chi ci sta accanto. Gli uni per gli altri abbiamo la possibilità di riconoscerci e rispecchiarci nelle nostre aspirazioni più profonde.

La seconda considerazione è che se – come ci ricorda Epicuro – l’amicizia rientra tra i bisogni naturali e necessari per la felicità dell’uomo, sviluppare qualità umane come l’amore verso gli altri, la non violenza, l’accoglienza, il desiderio di pace aiuta a non lasciarsi travolgere da emozioni negative quali odio, rabbia, aggressività e a far sì che non siano esse a dirigere i nostri comportamenti.

Aprire le braccia all’altro ci insegnerà, quindi, anche a prenderci migliore cura di noi stessi.

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Educare alla vita

Educare alla vita

Scritto negli anni ’50, ma di un’attualità sconvolgente, il testo “Educare alla vita” pone uno degli interrogativi fondanti del nostro secolo, quello del rapporto tra educazione e società.

 

Per poter educare qualcuno occorre prima di tutto essere disponibili ad affrontare un processo di crescita, di autoeducazione, che non può che durare tutta la vita.

Genitori con il cuore

“Per proporre il giusto tipo di educazione, dobbiamo ovviamente comprendere il significato della vita nella sua totalità”. Krishnamurti

L’istruzione non può riguardare solo l’addestramento della mente. L’esercizio favorisce l’efficienza ma non determina la completezza.

Le conoscenze e l’efficienza sono necessarie, ma dar loro un’importanza eccessiva genera solo conflitto e confusione.

Vi è un tipo di efficienza ispirata all’amore che supera di molto l’efficienza legata all’ambizione. E senza l’amore, che permette una comprensione integra della vita, l’efficienza genera solo crudeltà.

L’individuo è un organismo complesso composto di diversi elementi che, proprio attraverso l’educazione andrebbero integrati. Il fine dell’educazione non è, quindi, creare eruditi, tecnici e carrieristi, ma crescere uomini e donne liberi dalla paura, poiché solo con la comprensione di noi stessi possiamo iniziare a cooperare.

L’educazione dovrebbe, quindi, risvegliare la capacità di essere autoconsapevoli e non limitarsi ad assecondare una gratificante espressione di sé.

Senza un’autoeducazione non si può pretendere di educare qualcuno.

 

Il giusto tipo di educazione

Non è ignorante chi non ha studiato, ma chi non conosce sé stesso

Γνῶθι σεαυτόν recitava l’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi.

L’educazione nel suo significato più alto, è la comprensione di sé, perché dentro ciascuno di noi è contenuta tutta l’esistenza.

Ma cosa ci insegna Krishnamurti rispetto al giusto tipo di educazione?

1. La formazione tecnica non è mai in grado di generare una comprensione creativa

2. Il possesso dell’istruzione tecnica è figlio del bisogno di controllo: ci dà l’illusione della sicurezza, ma ci allontana dalla comprensione della vita.

3. Educare significa, in senso letterale educere cioè suscitare, evocare da dentro, aiutare una persona a fiorire in amore e bontà, secondo le sue inclinazioni, senza sovrapporre un modello ideale di come noi vorremmo che fosse. Quindi anche l’educatore idealista non sta lavorando sulla fioritura dell’altro, ma su sé stesso. Gli ideali sono una comoda via di fuga. Il perseguimento di un’ideale esclude l’amore e senza amore nessun problema umano può essere risolto.

4. Non è possibile risvegliare la sensibilità attraverso la coercizione: premi e punizione rendono solo la mente sottomessa e ottusa. La coercizione genera antagonismo e paura.

5. Anche l’educazione religiosa, benché tutte le religioni affermino di amare Dio e che dobbiamo amarci l’un l’altro, se interpretate in maniera ideologica, possono instillare paura, sospetto e rivalità con i loro dogmi e le loro dottrine di premi e punizioni. Educare in modo religioso significa incoraggiare il bambino a comprendere la sua relazione con gli altri, con le cose, con la natura.

 

Nel saggio Educare l’uomo domani anche Roberto Assagioli dice che l’ambiente ideale per un bambino deve avere 4 qualità fondamentali:

1. amore, per eliminare ogni paura;

2. pazienza, perché si rispettino i ritmi naturali di sviluppo psicospirituale del bambino;

3. attività organizzata, per sviluppare il senso di responsabilità;

4. comprensione, perché i suoi impulsi siano ben interpretati.

Vedete quindi quanto, più del contenuto, conti la natura della relazione che stabiliamo con il bambino.

Come sosteneva anche Buber, nel saggio Io e tu, l’esistenza non sussiste senza relazione e, senza la conoscenza di sé, la relazione può solo generare conflitto e dolore.

 

Il bravo insegnante

L’influsso della famiglia e della scuola devono integrarsi.

Ma quali sono i requisiti di un bravo insegnante?

Secondo Krishnamurti l’insegnante “guida” si accosta al bambino, consapevole dei suoi bisogni e difficoltà, senza seguire metodi e formule, riuscendo ad essere vigile e attento. La giusta educazione dovrebbe, quindi, aiutare lo studente a scoprire la sua vera vocazione, e aiutarlo a capire se questa vocazione giova all’umanità per poter contribuire ad una trasformazione sociale.

L’insegnante deve essere sempre vigile, attento e consapevole dei suoi pensieri e sentimenti, dei suoi condizionamenti, delle sue attività e reazioni. È importante che sia libero dalla paura perché essa restringe il pensiero e l’azione e contagia i bambini. Se si è in preda a paura è importante verbalizzarla con i bambini spigandone le reazioni. Questo approccio onesto e sincero stimola l’apertura e la sincerità nei bambini.

L’educazione, richiede nell’educatore lo sviluppo di due qualità ardue, ma che lo obbligano ad elevarsi: da una parte dovrà sviluppare la comprensione, l’intuizione e la plasticità della sua disposizione d’animo, unitamente ad una tecnica consolidata. Ma, soprattutto è essenziale che sia educato ad autodominarsi: nell’arte di educare è essenziale riconoscere la vera natura del problema educativo. Esigere molto più da sé stessi che da chi educhiamo.

 

Arte, bellezza e creazione

“La sensibilità alla bellezza e alla bruttezza non sorge attraverso l’attaccamento; sgorga dall’amore, quando non ci sono conflitti generati dall’io”.

Se dentro siamo poveri, cerchiamo soddisfazione in forme di esibizione esteriore, nella ricchezza, nel potere, nel possesso.

La maggior parte di noi cerca di sfuggire da sé stesso e anche la dedizione all’arte può essere un modo per raggiungere questo scopo. In realtà la creazione è figlia del silenzio.

Quando la mente è tranquilla, quando è silenziosa perché l’io non è attivo, allora c’è creazione. L’amore per la bellezza può esprimersi in una canzone, in un sorriso o nel silenzio, così difficile da ascoltare.

 

Se non c’è bellezza nei nostri cuori, né spazio per il silenzio come possiamo aiutare i bambini ad essere attenti e sensibili?

 

Aperitivo letterario 28 ottobre 2015

Note a margine di Krishnamurti, Educare alla vita, Oscar Mondadori

presso Caffè Bamboo, Via Marcona 6 Milano

Vocazioni e scelte di vita: una sintesi possibile

Vocazioni e scelte di vita: una sintesi possibile

La vocazione nasce prima di noi e anzi guida la nostra nascita, poiché siamo noi che scegliamo la nostra vita. Solo che non lo ricordiamo.

Veniamo al mondo con il preciso scopo di riempire i contorni di un’immagine, di un pattern che preesiste e i cui spazi si vanno colmando, man mano che procediamo lungo il viaggio dell’esistenza.

Genitori con il cuore

Chi sono io?

Qual è la mia missione a questo mondo?

Ci sono cose a cui devo dedicarmi al di là del quotidiano?

Esiste qualcosa dentro di me che mi induce ad essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie?

Se esiste, dice Hillmann, è la chiave per leggere il Codice dell’anima, quella sorta di linguaggio cifrato che ci spinge ad agire ma che non sempre comprendiamo.

La missione di ognuno di noi è scritta nel nostro codice genetico e Hillman ce lo mostra attraverso esempi famosi, storie vere.

La direzione è data dalla vocazione innata, che consente all’unicità di cui sono portatore di esprimersi.

Un esempio. Concorso per dilettanti alla Opera House di Harlem.

Sale timorosa sul palco una sedicenne goffa e magrolina. Viene presentata al pubblico “Ed ecco a voi Miss Ella Fitzgerald…ballerà per noi…Un momento…un momento….Come dici dolcezza?…Mi correggo signore e signori…Miss Fitzgerald ha cambiato idea…non vuole ballare…vuole cantare…”.

La vocazione al canto di E.F. è stata più forte di tutto. Ha preso il sopravvento, si è manifestata nell’esatto momento in cui poteva essere ascoltata.

 

Il mito di ER

Per dare spessore a quella che lui definisce la “Teoria della Ghianda” (è il nucleo fondante di ogni individuo unico e irripetibile a far scaturire il suo cammino), Hilmann prende a prestito un mito introdotto da Platone nel X libro de La Repubblica, Il mito di ER.

Le anime che provengono da vite precedenti e soggiornano nell’aldilà, hanno ciascuna un destino da compiere, una parte assegnata che corrisponde al carattere di quell’anima, che si sceglie la vita in cui vuole reincarnarsi.

Prima di fare il loro ingresso nella vita umana, però, le anime attraversano la pianura di Lete (oblio, dimenticanza). Sicché al loro arrivo sulla terra ciò che è accaduto viene cancellato.

Hanno dimenticato tutto. Solo il daimon che è stato loro assegnato ricorda…

Questa teoria riconduce all’uomo la responsabilità della vita che si è scelto e lo sgancia dai condizionamenti familiari o sociali cui viene sottoposto.

Hilmann scardina – con il mito platonico – il Mito della Madre, intesa come Grande Madre Archetipica origine di ogni bene e di ogni male, da cui nasce quel sistema di credenze, che intrappola le madri in un destino irreversibile e i figli nel risentimento contro le madri.

In realtà è il daimon a prenotare in anticipo la madre, forse ancora la predetermina.

Nella pratica, quindi, possiamo rileggere la nostra vita come un dipanarsi di eventi che originano da un’allineamento alla visione primaria, all’imprinting che ho avuto prima di nascere.

Secondo questa teoria, molto suggestiva, tutto quel che capita va, quindi, sempre visto con la consapevolezza che potrebbe trattarsi di un passaggio necessario alla realizzazione della mia missione.

Spesso lungo il cammino avvengono eventi inaspettati, intervengono figure che cambiano completamente la direzione del nostro destino.

Può, per esempio, succedere che qualcuno più avanti di noi nel cammino di crescita interiore veda prima ancora di noi stessi quei semi che, se adeguatamente coltivati, faranno nascere succosi frutti.

Hilmann introduce la figura del mentore come di colui che intravede il daimon e gli da corpo.

Seguire la traiettoria con dedizione è abbastanza facile. Il più delle volte lo sentiamo quel che dobbiamo fare. L’immagine del cuore può avanzare forti pretese e chiederci di essere fedeli.

Il difficile è dare un senso agli accidenti e comprendere se le folate che ci trattengono sono diversivi o hanno ciascuno un particolare scopo.

La vocazione guida i nostri passi

“La vocazione nasce prima di noi e anzi guida la nostra nascita, poiché siamo noi che scegliamo la nostra vita. Solo che non lo ricordiamo.”

Ma il daimon che ci è stato assegnato ci ricorda quale direzione seguire e lo fa inaspettatamente.

Questa consapevolezza ci distoglie dall’ossessione di attribuire ai nostri genitori le cause dei nostri mali e anzi ci riporta a noi, dandoci strumenti per intervenire. Perché anche i genitori devono seguire il proprio daimon.

A volte interviene un mentore a svelarci la strada e anche eventi apparentemente negativi sono portatori di una saggezza dell’anima che va comunque capitalizzata.

La comprensione intellettuale del cammino non è quasi mai possibile.

Occorre attivare delle modalità di conoscenza diverse legate alla sfera dell’intuizione, aprirci all’immaginazione, ricomporre le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le nostre aspirazioni, le nostre paure in una sintesi integrata guidata dalla coscienza.

E’ un cammino di consapevolezza e di trasformazione che può essere aiutato

Note a margine di Hillman, Il Codice dell’Anima, Adelphi