TRASFORMARE I BUONI PROPOSITI IN AZIONI – Step 5

TRASFORMARE I BUONI PROPOSITI IN AZIONI – Step 5

Quando ci troviamo a dover affrontare un #cambiamento, il momento più complicato è quello in cui, dopo la comprensione di ciò che vogliamo trasformare, dobbiamo – necessariamente – concretizzare l’azione.

Genitori con il cuore
#Il lavoro necessario a trasformare i buoni propositi in #azioni richiede innumerevoli prove: occorre iniziare piano piano e, procedendo per piccoli passi, trasformare le idee in prototipi e migliorare, aggiustare, aggiungere e togliere, finché il risultato finale non ci soddisfa appieno.
Per farlo, dobbiamo attingere ad una facoltà, di cui tutti siamo dotati, che la #Psicosintesi denomina #Volontà e che possiamo tradurre come “il potere di autogovernarsi”. Ed è il driver che può aiutarci a surfare sulle onde del cambiamento con relativa leggerezza e senza troppa resistenza.
La volontà psicosintetica non è una volontà di autoforzatura, di coercizione a seguire una precisa direzione; anzi è un potere complesso che implica la capacità di autodeterminarsi, ma anche di lasciare andare ciò che non serve. Angela Maria La Sala Batà la definisce “la forza propulsiva che muove il sistema della consapevolezza”.
Io la immagino come una immensa forza d’amore, “l’amor che move il sole e le altre stelle” – per dirla con il Sommo Poeta #DanteAlighieri – un’esperienza diretta, una rivelazione improvvisa di una forza che forse non credevamo di avere, un potere di scelta, una guida forte e decisa che ci dà la direzione per la nostra realizzazione. Quando entriamo in contatto con la volontà sperimentiamo senza tentennamenti i suoi aspetti fondanti: forza, saggezza e bontà.
La sua forza è una energia che viene da dentro, che va sperimentata, ma che non deve essere dimostrata. Esiste. È.
Quindi, per prima cosa dobbiamo riconoscere di avere una volontà e poi di essere una volontà. Infine, dobbiamo allenarci ad esercitarla, poiché l’aspetto della forza non è l’unico.
La sua saggezza implica la capacità di guardare al futuro con una visione intelligente, emotivamente e spiritualmente intelligente. Possiamo dire che la volontà sapiente mette le giuste energie nella direzione di autorealizzazione (senza dispersioni inutili) e guarda al futuro con la certezza che il passo preciso che stiamo affrontando è esattamente quello che ci serve per #evolvere.
E infine la bontà – intesa come quella attitudine al bene nostro e del contesto in cui operiamo – deve caratterizzare l’espressione della volontà.
La volontà forte, sapiente e buona è il timone che ci consente di dirigere la nostra nave verso una direzione chiara e di facilitare l’orientamento delle vele per arrivare a destinazione.
Non è però da intendersi come un’attitudine contemplativa: va praticata e allenata continuamente.
C’è sempre un momento preciso in cui le mie clienti si trovano davanti alla “svolta” che consente loro di prendere veramente in mano il percorso e iniziare a guidare il viaggio del ritorno a sé, del ritorno alla propria casa interiore.
Nel nostro libro THE HEALING HOME – LA CASA CHE CURA scritto con Silvana Citterio e pubblicato con Eifis Editore  al capitolo 5, potrete leggere come, nel percorso con Silvana, quel momento di passaggio è coinciso con un particolare esercizio fatto insieme.
Quando all’inizio del nostro viaggio le chiesi di rappresentare sé stessa, Lei disegnò su un foglio una bambina ed una donna. Lo fece dividendo il foglio in due e mettendo le due figure nelle parti opposte dello stesso.
Quando finalmente mi resi conto che stava risalendo e recuperando la visione dal punto di vista del centro di Sé, di quell’osservatore esterno che stava prendendo in mano il timone della sua vita, le chiesi di riprendere quel disegno, di osservarlo e di sentire che cosa le suggeriva. E lei fece un gesto molto semplice, ma altamente significativo: cancellò la barriera che univa la parte donna e la parte bambina e collegò le due immagini di sé, senza soluzione di continuità. Allungò la mano della donna, affinché potesse prendere per mano la bambina. Quell’atto, quel gesto attivo rappresentato dalla modifica del suo disegno coincise esattamente con il momento in cui iniziò il processo di trasformazione.
È la volontà a guidare il nostro processo di sintesi, quel processo che ci consente di accettare le varie facce che compongono il nostro caleidoscopio, per integrarle in una prospettiva unitaria, autentica e centrata.
Nel nostro libro, Silvana ed io spieghiamo come fare ad attivare questa forza trasformativa, attraverso il benefico potere della nostra casa che, lo abbiamo detto nelle puntate precedenti, è un simbolo vivo della nostra interiorità.
Cominciare a fare questo lavoro sulla propria #casa con gli spazi e con i colori è un esercizio molto potente che ci dimostrerà, praticamente, quale potere di autoguarigione ciascuno abbia in sé e come possa essere messo a frutto in diversi ambiti della nostra vita.

RITORNO AL FUTURO – Step 4

RITORNO AL FUTURO – Step 4

Quanti di noi hanno sentito intimamente una chiamata verso una vita diversa o quantomeno verso l’espressione di parti di sé rimaste a lungo sopite, represse o, peggio, rimosse?

Genitori con il cuore

Nella fiaba di H. C. Andersen Il brutto anatroccolo, il povero pennuto capita in una famiglia di anatre e passa gran parte della vita a pensare di essere inadeguato: è sproporzionato, con le zampe troppo lunghe, la testa grossa, il piumaggio scuro e arruffato. È costretto, quindi, a vagabondare, ripudiato, finché non scopre la sua vera natura. Quando il brutto anatroccolo riconosce finalmente di essere un bellissimo cigno, smette di colpevolizzarsi, per non essere all’altezza delle aspettative delle anatre e, finalmente, può dispiegare il suo vero Sé in tutta la sua autenticità. Talvolta per caso, venendo in contatto con persone o situazioni che evocano quelle parti, ci rendiamo istintivamente conto che potremmo far parte di un mondo diverso, più in linea con la nostra natura, ma neghiamo a noi stessi la possibilità di esplorarla, semplicemente per paura di intraprendere una nuova via.
Nel mio lavoro con le #donne (in studio durante i training di formazione in azienda), ho avuto modo di osservare che tantissima #energia resta bloccata nel giudizio di sé: il cattivissimo #giudiceinteriore, che ciascuno di noi porta dentro, censura ogni variazione sul tema e, molto spesso, è più severo di quanto lo siano gli altri. Se lo facciamo parlare e diamo voce al suo criticismo capiremo da dove hanno origine i suoi condizionamenti. Per alcuni di noi parla con la voce di un padre autoritario che ci mette in secondo piano rispetto ai nostri fratelli, per altri con la voce di una madre frustrata nelle sue aspirazioni e rintanata in un inesorabile torpore.
Per altri ancora condanna idee, aspirazioni, soluzioni, possibilità perché fa più comodo restare nella zona di comfort, non rischiare, non risvegliare l’anima inquieta. Ho osservato con maggior frequenza questo fenomeno nelle donne, sia perché sono il campo di indagine che ho scelto di esplorare, sia perché la montagna di condizionamenti e gli #stereotipi culturali che subiscono da secoli le porta spesso a sentirsi in colpa e, quindi, ad alimentare la paura di non essere all’altezza delle situazioni sfidanti.
Ma gli stessi meccanismi operano anche per gli uomini.
Tutti continuiamo a reiterare schemi superati, perché abbiamo di noi stessi un’immagine che si identifica con le ferite che abbiamo riportato nella nostra infanzia. Crediamo che quella immagine sia tutto ciò che siamo e ci giudichiamo per questo.
Ma non è così.
Se volete provare a modificare questo vostro sentire, vi propongo un esercizio che troverete in calce al Capitolo quattro del libro THE HEALING HOME – La casa che cura. 7 passi per trasformare la tua casa e la tua vita, scritto con Silvana Citterio e pubblicato con Eifis Editore

Prendete carta e penna e dedicatevi del tempo in un posto tranquillo. Sedetevi comodamente e chiudete gli occhi.

• Immaginate di proiettarvi in un futuro vicino o lontano in un momento in cui siete sereni.
• Avete superato con successo una situazione che vi faceva molta paura e ora avete il tempo di riguardarvi indietro e rimirare il cammino percorso.
• Siete orgogliosi di voi e desiderate profondamente ringraziare le parti di voi (le qualità) che vi hanno spronato ad andare avanti e che vi hanno aiutato a portare a casa il risultato.
• Immaginatevi la scena con dovizia di particolari: dove vi trovate, che tempo fa, come siete vestiti, se ci sono persone con voi, qual è il vostro stato d’animo, quali i vostri gesti e cercate di assaporare ogni dettaglio della visualizzazione.
• Restate profondamente in contatto con quel che succede e solo dopo aver sentito, anche nel corpo, quel profondo senso di gratitudine che vi avvolge, aprite gli occhi e scrivete: “Cara… (qualità) desidero ringraziarti dal profondo del cuore, perché….”

Photo by Silvana Citterio

La vera forza della gentilezza

La vera forza della gentilezza

La pratica della gentilezza è ormai necessaria , non solo come antidoto all’odio diffuso, ma anche come risorsa per il nostro ben-essere, per costruire relazioni feconde, per migliorare efficienza e apprendimento negli studi e nella vita professionale. Ecco il mio intervento all’Aperitivo letterario del 12 novembre 2019 ispirati da La forza della gentilezza di Piero Ferrucci, Mondadori.

Genitori con il cuore

Perché parlare di gentilezza

La gentilezza, diceva Goethe è una catena che tiene uniti gli uomini. Nella sua accezione comune la gentilezza richiama la buona educazione: un insieme di gesti da Galateo che insegnavano i nostri nonni.

Ma questa è una visione riduttiva. Provate a ricordare che cosa avete provato l’ultima volta che qualcuno è stato gentile con voi. Sicuramente vi sarete sentiti visti, riconosciuti nel vostro valore e avrete provato gratitudine nei confronti di quella persona.

E viceversa, cosa avete provato l’ultima volta che siete stati voi gentili con qualcun altro? Il cuore probabilmente si è aperto ad uno stato di benessere e attenzione verso il mondo fuori e avrete percepito connessione con l’altro.

La gentilezza è un ingrediente essenziale per non sprecare il capitale di rapporti umani che possediamo. La gentilezza fa bene a chi la riceve, ma anche a chi la dona.

Anche la scienza ha confermato che le persone gentili stanno meglio e vivono più a lungo.

I teorici dell’evoluzione mostrano che il dna delle persone gentili ha grandi possibilità di riprodursi, mentre i neurologi riscontrano un’attività più intensa nel lobo posteriore superiore temporale del cervello degli altruisti. E il punto è proprio questo: il fatto stesso di essere gentili è il beneficio della gentilezza. E quindi le prove scientifiche potrebbero anche non essere necessarie, anche se legittimano un modello di riconoscimento delle nostre emozioni che ci aiuta a capire come siamo fatti.

Se la nostra natura è quella di essere aperti, disponibili e empatici verso gli altri, oppure no.

La falsa gentilezza

Per parlare di gentilezza dobbiamo sgomberare il campo da tutte le forme di falsa gentilezza.

Non è gentilezza una generosità calcolata, volta ad ottenere vantaggi dagli altri.

Non è gentilezza la manifestazione di rabbia nascosta e non espressa, mascherata falsamente: questo è ciò che gli psichiatri chiamano una “formazione reattiva” ovvero il vestito per contenuti inconsci inaccettabili e, per ciò, adattati.

Non è gentilezza la passività o debolezza, quella di manzoniana memoria del “vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro”.

La gentilezza è, invece, un insieme di qualità sinergiche che possono essere agite singolarmente, ma che hanno ancora più potere trasformativo se agite insieme.

Le qualità di cui ci parla Piero Ferrucci sono innocuità, appartenenza, contatto, fiducia, empatia, calore, gioia, fiducia, sincerità, pazienza, flessibilità, generosità, gratitudine, servizio. Dedicheremo un’attenzione particolare a Innocuità e Gratitudine, la prima perché spesso malintesa nell’accezione comune, la seconda perché è il modo più facile per essere felici.

Innocuità

Ahimsa paramo dharma, diceva Ghandi riferendosi al principio universale della non violenza, tradotto dal sanscrito come Non nuocere è la legge suprema.

Ahimsa è anche il primo degli Yama, le pratiche etiche, le cose da non fare per un sincero ricercatore spirituale che si avvicina allo Yoga integrale. Nella sua accezione di Innocuità, il non nuocere è una capacità di segno negativo, ma non passiva: innocuità è un comportamento attivo che esige un lavoro di autoregolazione e di concentrazione attenta. Richiede intelligenza, consapevolezza, padronanza di sé e bontà d’animo.

“L’innocuità – dice Ferrucci – è la risposta ad una domanda fondamentale che ognuno di noi più o meno consciamente si pone: qual è il mio atteggiamento verso ogni essere vivente: di competizione e confronto? Di giudizio e critica? Di sfruttamento o vittimismo? (…)di paura e sospetto? Oppure di supporto, amicizia, calore e collaborazione? Questa risposta giace nella profondità del nostro essere ed è lì che dobbiamo andarla a scoprire.Il nostro implicito atteggiamento verso gli altri ci accompagna sempre, condiziona i nostri rapporti con gli altri, colora la nostra vita”. Gratitudine

Passando alla gratitudine, siamo sempre colpiti dall’intensità emotiva e dalla bellezza di questo sentimento. Ma il sentimento è solo l’aspetto più visibile della gratitudine. In realtà essa è prima di tutto un’operazione della mente e consiste nel riconoscere valore a ciò che la vita ci offre.

Tutto è perfetto così com’è, dicono gli orientali, anche se adesso non comprendiamo.

“La gratitudine – dice Ferrucci – è per definizione antieroica. Non dipende da quanto io sono bravo o forte o speciale. Anzi è basata sulla mia mancanza e sulla mia capacità di chiedere aiuto. Se non nascondo a me stesso quanto sono vulnerabile e incompleto, allora posso ricevere il beneficio che la vita mi offre ed essere grato”.

Nella relazione, spesso perdiamo questa opportunità perché, per coglierla pienamente dobbiamo accettare ancora una volta di essere senza difese e che la nostra felicità possa dipendere da qualcun altro.

Allora perché la gentilezza è una qualità contro-corrente?

Adam Phillips, in un articolo pubblicato con Barbara Taylor su Internazionale (dicembre 2018) e prima ancora sul Guardian dice “Nella nostra immagine degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione.”

La gentilezza è rischiosa, perché abilita un paradigma di dipendenza dagli altri. Per essere gentili, dobbiamo essere in grado di farci carico carico della vulnerabilità degli altri, e quindi della nostra. E ciò, dice Philips è diventata un segno di fragilità.

La società moderna occidentale rifiuta questa verità fondamentale e mette l’indipendenza al di sopra di tutto. Per gran parte della storia occidentale la gentilezza è stata legata alla cristianità, che per secoli ha fatto da collante culturale, tenendo uniti gli individui di una società.

Ma dal cinquecento in poi il comandamento cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso” subisce la concorrenza dell’individualismo. Il Leviatano (1651) di Thomas Hobbes considera la generosità cristiana psicologicamente assurda. “Homo Homini Lupus” sostiene Hobbes: l’esistenza è una “guerra di tutti contro tutti”.

L’individualismo è un fenomeno recente, legate alle teorie sul capitalismo e visto come chiave di lettura della società moderna in opposizione al collettivismo. In realtà l’illuminismo, generalmente considerato l’origine dell’individualismo occidentale, difendeva le “inclinazioni sociali” contro gli “interessi privati”.

Anche se il sospetto più radicato nei confronti della gentilezza è che sia solo una forma di narcisismo camuffato, la gentilezza continua a esse­re un’esperienza di cui non riusciamo a fare a meno, sebbene il nostro sistema di valori contemporaneo, contribuisce a far sì che sembri utile in alcune circostanze, ma anche potenzialmente super­flua.

Conclusioni

Nella visione di molti cammini spirituali, ogni persona è tutti gli altri.

Così come in ogni cellula è contenuto il Dna dell’intero organismo, ogni individuo contiene in sé l’umanità intera.

Se siamo in grado di migliorare la vita di qualcun’altro e di accendere una luce nel suo cuore, questa è già una vittoria, una risposta umile e silenziosa alle sofferenze e ai disagi del nostro pianeta. “Quando ti viene data la possibilità di scegliere se avere ragione o essere gentile, scegli di essere gentile” Dr Wayne W. Dyer

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Codice femminile e gestione del conflitto: gli interessanti spunti della mitologia sumera(*)

Codice femminile e gestione del conflitto: gli interessanti spunti della mitologia sumera(*)

E’ possibile prendere spunto dalla simbologia della mitologia sumera, per offrire una chiave interpretativa della gestione consensuale del conflitto, ovvero  quella modalità in cui le parti si autodeterminano nella gestione del conflitto e contribuiscono fattivamente alla sua risoluzione?
Cristina Menichino, nel suo bellissimo libro “Il Conflitto e l’Archetipo della dea Inanna” ci suggerisce chiavi interpretative nuove e affascinanti.
Ma per rispondere a questa domanda abbiamo bisogno di orientarci con una road map, di cui mi limiterò a indicare 3 coordinate.

La prima è la visione del conflitto come processo evolutivo.
Il conflitto va letto, infatti, come un processo che non va colto in una prospettiva statica, ma dinamica, perché nella sua complessità contiene già la possibilità di trasformare la relazione che sta sotto.
In epoca sumera avviene un processo di evoluzione sociale che consente il passaggio da società basate sul matriarcato (dove la trasmissione del nome e dell’eredità avviene per via materna) a  società patriarcali verticali e gerarchizzate.
E’ un passaggio graduale che avviene durante il dipanarsi della civiltà sumera che  copre 2000 anni di storia (dal 4000 al 2000 a.c. circa).
La dea Inanna, come archetipo, simboleggia proprio questa trasformazione e rappresenta quindi – paradossalmente –  la simbologia di un passaggio dal disordine all’ordine, da un principio femminile ad un principio maschile (e viceversa), perché riassume in sé la potenzialità di contenere gli opposti e di contemperarli in una sintesi armonica, invece che in una logica dicotomica.
A differenza delle divinità della mitologia greca che vestivano le qualità del femminile con caratterizzazioni specifiche  e separate (Afrodite, la seduttività; Era, la fedeltà; Atena, la giustizia e la saggezza, Demetra il senso materno ecc..), Inanna incarna, in un magico caleidoscopio, le mille sfaccettature del femminile.
Il conflitto allora diventa il sintomo di una necessità evolutiva di un sistema da uno stato all’altro e ritorno.
Questa è una visione molto potente che ci consente di spostare l’osservazione del conflitto dal punto di vista di un terzo osservatore neutrale e imparziale. Questa è la visione che noi professionisti collaborativi intendiamo portare nelle organizzazioni come mind-set, come modello.

La seconda coordinata è l’osservazione del conflitto come dinamica emozionale.
Ogni persona che venga coinvolto nel conflitto finisce per entrare in contatto con le proprie emozioni, le proprie paure, le proprie contraddizioni.
Il conflitto è un’occasione per rivolgere la telecamera verso di noi, osservare le risonanze interne nel conflitto e darci occasione per trasformare non solo la relazione con l’altro ma anche la relazione con noi stessi.
Quindi entrare in contatto con il conflitto vuol dire entrare in contatto con la nostra parte ombra, il lato oscuro della nostra forza, direbbe Luke Skywalker (il personaggio protagonista della saga di Guerre Stellari) osservarla senza giudizio e provare a trasformarla per rendere la sua risposta più funzionale alle sollecitazioni esterne.

La terza è l’influsso dell’archetipo femminile nella società.
Abbiamo detto che, proprio a partire dalla società sumera, si assiste ad un progressivo spostamento da una società matriarcale ad una società patriarcale dei cui principi siamo tuttora pervasi.
E allora la domanda che dobbiamo porci è: non è che i tempi sono maturi per tornare ad un codice femminile nella gestione del conflitto?
E qui vorrei portare il focus nell’ambito delle organizzazioni, riportando il punto di vista di un illustre psicoanalista, Massimo Recalcati , intervenuto recentemente al Congresso Nazionale di Aidp (Associazione direzione del personale) di cui faccio parte.
Affinché le organizzazioni ripartano nel post-pandemia occorre lavorare sulle relazioni e sulla fiducia e, quindi, sostituire l’imperante codice paterno, dove le persone sono numeri, dove l’organizzazione prevale sulla relazione, dove il modello separativo gerarchico e competitivo è fortemente condiviso, con un codice materno inclusivo, dove l’attenzione è riservata ad ogni persona, dove la comunicazione (e la leadership sono orizzontali), dove la diversità è valorizzata attraverso l’ascolto e l’espressione della creatività.
Tutti questi sono principi veicolabili in un modello di leadership femminile basata sulla fiducia e sulla responsabilità, e in una logica eco-sistemica delle organizzazioni e non ego-centrata sulla figura del leader di potere.
Non serve dire che occorre sia veicolata da uomini e donne, visto che in Italia oggi siamo ancora al 76esimo posto su 153 paesi per Global Index Gender Gap.
Il codice paterno e materno non si escludono, ma possono essere contemperati nella gestione del conflitto.
La differenza la fa la consapevolezza (organizzativa, sociale, personale) e qui ciascuno di noi sa qual è la sua respons-abilità e il contributo che può portare alla visione del conflitto come occasione di crescita.

(*) Intervento in occasione della Presentazione del libro di Cristina Menichino, Il conflitto e l’Archetipo della Dea Inanna, svoltosi on line il 27 aprile 2021 a cura di EnnepuntoZero

Violenza economica: come l’educazione finanziaria può aiutare la gender equality

Violenza economica: come l’educazione finanziaria può aiutare la gender equality

In Italia oggi 1 donna su 5 non ha un suo conto corrente al Nord (1 su 4 al Sud) o se ce l’ha spesso è gestito dal partner.

Genitori con il cuore

Molte sono ancora le donne che vengono convinte (o costrette) ad abbandonare il lavoro per stare a casa o, magari per lavorare nell’azienda di famiglia, senza retribuzione.

La violenza economica è un problema di cui si parla poco o, prevalentemente in associazione alla violenza fisica, cui è intimamente connesso, ma non è solo un fenomeno racchiuso tra le mura domestiche.

Se ne è parlato al Festival dello sviluppo sostenibile, il 29 settembre 2020, in occasione del Convegno Come contrastare la violenza economica sulle donne: L’innovazione dà una mano? organizzato dal Gruppo Asvis per la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda ONU 2030, in relazione al Goal 5 (Parità di genere), di cui ho l’onore di far parte, come coordinatrice del Gruppo Donne lavoro e sostenibilità professionale di Aias.

La violenza economica, ci ha spiegato il Gip del Tribunale di Vercelli Fabrizio Filice viene spesso utilizzata come arma di ricatto per la donna che intende separarsi o nel caso di denunce per maltrattamenti, ove “il reato di maltrattamenti in famiglia potrebbe essere integrato dalle condotte economicamente sensibili (accentramento della gestione patrimoniale, controllo di spesa, instillazione di sensi di colpa in relazione alla differenza di retribuzione, in eccesso o in difetto)”.

Ma non è questo l’unico aspetto della violenza economica, sebbene sia naturalmente il più grave.

Secondo la sottosegretario al Mef Maria Cecilia Guerra, il divario di genere sul mercato del lavoro in Italia è assestato sul 44% e consta di 3 variabili:

– Minor guadagno orario per le donne;

– Meno ore retribuite mensili (per esempio, per un maggiore ricorso ai congedi parentali);

– Tasso di occupazione femminile più basso di quello maschile.

La posizione della donna sul mercato del lavoro è più debole anche perché i compiti di cura delle persone più fragili (figli, anziani e disabili) gravano quasi integralmente sulle donne: è giocoforza che il loro ruolo lavorativo debba essere compatibile con un posto più vicino a casa e con orari più flessibili.

Inoltre, se i carichi di lavoro di cura non sono equamente distribuiti anche lo smart working rischia di diventare un ghetto.

A ciò si aggiungono altri due fattori.

Il primo è un tema di stereotipi di genere di matrice culturale, spesso alimentato anche dalle stesse donne: l’uomo è spesso considerato il “responsabile economico” della famiglia. Pensate che il 54,1% delle donne non investe i propri risparmi (contro il 34% degli uomini).

E il secondo è quella forma di discriminazione occulta per cui le donne finiscono per avere minor accesso a incentivi, straordinari e premi di produzione.

Anche dal punto di vista finanziario – ci dice Magda Bianco di Banca d’Italia – l’accesso al credito, a parità di condizioni, è più difficile per le imprenditrici, nonostante che le imprese “al femminile” crescano di più, abbiano profili più green e sostenibili e offrano maggiore attenzione al welfare.

E e ciò determina un effetto di scoraggiamento, sia perché le donne sono meno propense al rischio, sia perché si aspettano più facilmente un rifiuto.

Per invertire questa tendenza è indispensabile incentivare percorsi di empowerment al femminile, ma anche aumentare le competenze finanziarie delle donne con progetti di alfabetizzazione finanziaria.

Non solo. Occorre anche sostenere attivamente politiche che tengano conto del gender mainstreaming. Già nel 1997, il Consiglio economico e sociale delle Nazioni aveva definito il concetto di gender mainstreaming come “il processo attraverso cui sono valutate tutte le implicazioni per le donne e per gli uomini di ogni azione progettata, in tutti i campi e a tutti i livelli, compresa l’attività legislativa, politica e di programmazione”.

Ottobre è il mese dell’alfabetizzazione finanziaria e anche noi ce ne occuperemo con la collaborazione di Beppe Ghisolfi (Vice Presidente del gruppo Europeo delle Casse di Risparmio) e grazie al progetto Connessioni di Isper con il corso Donne e denaro. Come l’educazione finanziaria può aiutare lo sviluppo dei talenti di genere (4 e 5 novembre ore 9.30-13.00 via zoom)

Ma in questo scenario, che ruolo può avere l’innovazione per contrastare il gender gap?

Lo strumento tecnologico – ha spiegato Mario Calderini, professore di Innovazione Sociale al Politecnico di Milano – non è né buono né cattivo”. Se non viene usata in maniera inclusiva, anche la tecnologia può amplificare le diseguaglianze.

Ad esempio, i crash test delle auto sono settati su un’ individuo maschio con un’altezza media superiore a quella femminile e, quindi, con un gap di distanza nella seduta da pedaliera e volante.

L’economia della conoscenza genera opportunità solo per chi ha familiarità con la scienza e la tecnica, che costituiscono uno dei più importanti driver dell’evoluzione.

Non solo, quindi, è necessario promuovere alla radice un avvicinamento delle studentesse femmine alle discipline STEM, ma lavorare anche molto sui role models (è di qualche giorno fa la notizia che Il Nobel per la Chimica quest’anno è stato assegnato alla biochimica francese Emmanuelle Charpentier e alla chimica americana Jennifer A. Doudna, che hanno messo a punto la tecnica che taglia-incolla il Dna che permette di riscrivere il codice della vita).

Competenze digitali e uso consapevole della tecnologia, competenze finanziarie ed empowerment sono le tre chiavi che consentiranno alle nuove generazioni di privilegiare modelli di imprenditorialità femminile sostenibile e di creare, così, circoli virtuosi per la promozione di politiche culturali, sociali e politiche che valorizzino i talenti delle donne.

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Dedicato a tutti gli eroi in viaggio

Dedicato a tutti gli eroi in viaggio

Siamo tutti eroi in viaggio. Il viaggio dell’eroe è un viaggio interiore verso le profondità oscure dell’essere, per resuscitare poteri dimenticati e riscoprire parti di sé. Ecco una sintesi dell’intervento mio e di #saraloffredi all’Aperitivo letterario del 28 gennaio 2020, ispirate da Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler e L’eroe dai mille volti di Joseph Campbel.

Genitori con il cuore

Le storie degli uomini variano ma il viaggio dell’eroe è lo stesso. L’eroe è il simbolo di quell’immagine divina e redentrice che è nascosta dentro ognuno di noi e che aspetta solo di essere trovata e riportata in vita.

Il testo di Vogler, Il viaggio dell’eroe prende spunto dal testo di Joseph Campbell L’eroe dai mille volti, pubblicato per la prima volta nel 1949. Negli anni ’80 Vogler, un consulente per le sceneggiature della Disney, si interessa agli studi dei miti nelle popolazioni di tutto il mondo fatti da Campbell (uno dei più grandi studiosi di mitologia comparata), e trasforma il modello in un libro di grande successo, utile sia per l’analisi dei film che per la costruzione di qualsiasi trama narrativa.

Ogni narrazione che si rispetti segue lo schema del viaggio dell’eroe e ci coinvolge profondamente, quando sentiamo che parla a qualcosa di molto vicino a noi. Spesso i personaggi delle storie non si limitano a rispecchiare i nostri sentimenti, ma ci mostrano anche come elaborarli – specialmente quelli più dolorosi e difficili – per accompagnare la nostra evoluzione ed entrare in un mondo più vasto fatto di infinite possibilità.

Gli archetipi e il mito

Il Viaggio dell’eroe è universale, perché le funzioni e i ruoli narrativi del suo modello sono archetipi. Carl Jung ha usato il termine “archetipi” per intendere antichi modelli di personalità che costituiscono l’eredità condivisa dell’umanità. Secondo Jung esiste un inconscio collettivo simile a quello individuale: i miti e le fiabe rappresentano i sogni di un’intera cultura.

Per spiegare che cos’è un archetipo, Campbell utilizzava l’esempio del passero appena uscito dall’uovo che, vedendo la forma di un’aquila, creata artificialmente dall’uomo, si nasconde spontaneamente, mentre se vede la forma di un altro passero, si mette a cinguettare. La metafora del Viaggio dell’eroe sarebbe l’equivalente della forma del passero per noi uomini.

James Hillman, allievo di Jung e autore de Il codice dell’anima, sostiene che per apprezzare J. Campbell dobbiamo andargli incontro sul terreno dell’immaginazione.

Il tema dell’eroe è molto importante per la sopravvivenza della nostra civiltà, costruita sul mito eroico, perché è la forza immaginale che ispira le grandi imprese per il bene pubblico. “Recuperando il mito dell’eroe -dice Hillman – Campbell ha protetto la civiltà dal nichilismo della scienza materialisistica, dalla redenzione ultramondana del cristianesimo e dalla tirannia della mercificazione capitalistica dei valori.” Il mito dice la verità con la chiarezza di un mondo animato, vivo, bello, fondato su una natura animica e dotata di spirito.

Lo schema del viaggio

Tutte le storie sono riconducibili a uno schema narrativo elementare. L’Eroe riceve una Chiamata che lo strappa al suo Mondo Ordinario, istruito da un Mentore vince la sua paura, supera la Prima Soglia ed entra nel Mondo Straordinario, poi accede alla Caverna più Profonda, affronta la Prova Centrale, ottiene la Ricompensa e, dopo aver attraversato una Resurrezione, torna a casa con l’Elisir.

Una parte fondamentale del viaggio avviene durante l’accesso alla caverna più profonda. C’è un punto, di solito a metà della storia, dove l’eroe ha un’illuminazione, entra in lui una nuova prospettiva o comprensione: il Mondo Straordinario gli si svela dinnanzi e può sembrare che la storia sia finita qui, perché una nuova idea ha fatto breccia nella coscienza dell’eroe, che ha il sentore di come potrebbe essere la sua vita. Ma non è così. C’è ancora molto lavoro da fare: l’eroe deve scendere nella caverna più profonda, perché la trasformazione non avviene senza la rinuncia alle vecchie abitudini. Ed è qui tipicamente che avviene la caduta: l’ego non si libera facilmente delle vecchie percezioni e si crea un conflitto tra il proprio sé precedente e quello nuovo che sta lottando per emergere. Quando capiamo la verità su noi stessi, spesso la vita diventa molto più difficile, prima di migliorare: la trasformazione esige la morte di un vecchio sistema, perché ne possa emergere uno nuovo. Quindi il compito fondamentale dell’eroe è trovare un altro modo di vivere e tornare a raccontarlo. L’eroe affronta sempre un percorso di iniziazione, presente in molte culture: muore a sé stesso per rinascere uomo/donna: esce da una posizione di dipendenza psicologica per rinascere autonomo. L’antagonista e l’ombra

Nelle narrazioni che funzionano, l’eroe non è uguale a sé stesso all’inizio e alla fine del viaggio: ha illuminato parti di sé inconsce, che agivano contro di lui – impersonificate nell’antagonista – e questa consapevolezza ne fa una persona diversa. Nel processo per divenire esseri umani compiuti, siamo tutti eroi che incappiamo in guardiani interiori, in mostri e in aiutanti. Tutti i cattivi e tutti gli amici dell’eroe sono dentro noi stessi. La prova psicologica che tutti noi dobbiamo affrontare è fondere queste parti divise in un’entità completa e equilibrata o, come direbbe la Psicosintesi, integrare la molteplicità delle nostre subpersonalità in un sé unificato e consapevole di sé.

Il volto negativo dell’ombra, nella narrativa, si proietta su cattivi e antagonisti che, mettendo in pericolo l’eroe, lo spingono a dare il meglio.

In un racconto ben strutturato (così come nella vita) i personaggi ombra hanno in sé una parte di luce.

L’ombra può rappresentare l’influsso dei sentimenti repressi. Traumi o sensi di colpa, se ricacciati nell’oscurità dell’inconscio, si trasformano in energia dannosa che ci indebolisce; se portati invece alla luce della conoscenza, si polverizzano come i vampiri delle narrazioni più spaventose.

Anche nella visione psicosintetica ogni processo evolutivo deve partire da una visione dicotomica per arrivare ad una sintesi. Le polarità apparentemente oppositive, che caratterizzano qualsiasi organismo vivente, presente in natura, e qualsiasi relazione non sono che fisiologici strumenti per garantire l’evoluzione.

E’ proprio nella caverna dove avete paura di entrare, che si trova il tesoro che state cercando. L’effetto della vittoriosa avventura dell’eroe è quindi di far fluire nuovamente la vita nel corpo del mondo. E voi, siete pronti ad ascoltare la chiamata, ad accettare le sfide, a dominare la paura e a rivendicare il tesoro che state cercando?

@saraloffredi @rocard68

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