La  cura della relazione come cura di sè

La  cura della relazione come cura di sè

Se vogliamo cambiare il mondo esterno dobbiamo renderci, prima, disponibili a cambiare noi stessi. Le nostre relazioni possono facilitare questo processo, perché ogni essere umano è profondamente inter-connesso con gli altri e nutrito dalla cura e dall’attenzione che dona e che riceve.

Genitori con il cuore

,,La maggior parte delle persone non raccontano le loro storie per ottenere consigli: le raccontano per essere ascoltate. Più profondo è il livello di ascolto e di cura, maggiore è il livello di sicurezza che prova chi racconta. Ma per entrare in contatto con questo sentire, dobbiamo andare oltre la dimensione dell’Io e percepirci in una  dimensione psicologica più ampia e fondata sulla relazione, che Vittorino Andreoli chiama la “psicologia del Noi”.

La relazione è composta, infatti, da tre elementi: IO, TU e NOI. Ed è sul NOI, ovvero sulla dinamica relazionale, che vorrei focalizzare l’attenzione, perché spostare l’attenzione dal TU al NOI, consente di rifondare anche la relazione trasformativa con l’IO.

Se vogliamo cambiare il mondo esterno, dobbiamo essere disponibili a cambiare prima noi stessi. In questo, le relazioni possono costituire un facilitatore di cambiamento. Secondo lo psicologo Daniel Stern “la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri”. Anche la teoria dei neuroni specchio, scoperta nel 1992 dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti ci ha insegnato che ogni risonanza empatica  crea un legame cervello-cervello: nei due cervelli si attivano circuiti paralleli che portano le persone a contaminarsi vicendevolmente, rendendo le emozioni contagiose.

L’empatia è, dunque, la base della vita sociale e ci consente di realizzare quello che Martin Buber chiama il rapporto Io-Tu, cioè quello tra due soggettività diverse ma equivalenti, diverso dal rapporto Io-Esso, dove l’altro è mero oggetto.

Per essere portatori di questa visione, siamo tenuti a radicarla profondamente in noi e a lavorare, prima di tutto sulla nostra pratica personale, per creare, attraverso la relazione con l’altro, qualcosa di nuovo e di diverso che, inevitabilmente, finirà  per trasformarci. Tali considerazioni possono risvegliare in noi un maggior senso di responsabilità nei confronti della nostra vita interiore, visto che, a partire dal nostro stato d’animo, emozioni sentimenti e pensieri possono contribuire a migliorare o a peggiorare l’esistenza delle persone intorno a noi.

Il prendersi cura della relazione non si può, allora, ridurre alla dimensione di un  gesto legato a situazioni temporanee, ma deve fondarsi su una pratica costante.

Nell’omonimo mito, raccolto da Higinus nel II secolo d.C., Cura, mentre attraversava un fiume, scorse del fango argilloso. Con un’idea ispirata, lo raccolse e cominciò a forgiare una forma umana, pregando Giove di infonderle parola e spirito. Ben presto, però, Giove e Cura cominciarono a litigare, pretendendo ciascuno di dare il nome alla creatura che avevano contribuito a creare. Mentre discutevano, comparve Terra, anch’ella desiderosa di dare il suo nome a ciò che era stato plasmato con la sua materia. Fu Saturno a fare da giudice. Ed egli saggiamente sentenziò che Giove prendesse lo spirito di Cura alla sua morte, che a Terra venisse restituito il corpo e che Cura restasse accanto alla creatura durante la vita intera.

Il simbolo potente che il mito sembra esprimere  ci porta a riflettere sul bisogno profondo dell’uomo di essere sostenuto dalla cura e di sentirsi sollecitato, coinvolto, responsabilizzato dalla presenza dell’altro.

Quando le persone sono accettate e valorizzate, tendono, infatti, a sviluppare un atteggiamento di maggior cura verso se stesse. Se si sentono ascoltate empaticamente, diventa loro possibile prestare un ascolto più accurato al flusso delle loro stesse esperienze interiori e, man mano che una persona comprende sé stessa, la sua manifestazione esterna diventa più congruente.

L’effetto visibile è quello di una maggiore autenticità e genuinità.

E’ sempre, per me, incredibile osservare come – nella pratica del counseling, della facilitazione nella gestione dei conflitti e della formazione – il mettersi in una disposizione d’animo aperta, di puro ascolto, non condizionato da pregiudizi, ma soprattutto silenziosa, consenta di entrare velocemente in una condizione di fiducia, che apre la strada ad una trasformazione. Il semplice stare nel presente con l’altro, nello spazio sacro del suo vissuto, facilita l’apertura e il fiorire di istanze di cambiamento, che riguardano entrambi.

In tutta onestà devo dire che restare concentrati sull’altro, senza sovrapporre il proprio mondo interiore, implica un disciplinato e costante lavoro su di sé, non scevro da pietre d’inciampo. Per attivare questo stato di reale disposizione all’ascolto occorre sviluppare costantemente in noi  le qualità che consentono di restare ben disposti verso gli altri, una humanitas che è sì devozionale comprensione dell’altro, ma è anche accettazione di sé stessi come esseri umani mortali  e imperfetti.
Occorre in altri termini sviluppare quello che Adler chiama “il coraggio dell’imperfezione”.

Lavorare sull’ascolto profondo durante un colloquio di counseling significa,  ad esempio, diventare trasparenti, lasciando che la persona crei da sé le basi e il percorso per il proprio cambiamento, accettandone i rischi. In altre parole, occorre lavorare sull’Empowerment, sul potenziamento delle risorse dell’altro e sulla sua capacità di affrontare proficuamente i cambiamenti, trasformandoli in opportunità di crescita.

Ciascuno può essere artefice del proprio destino, se impara ad attivare un atteggiamento proattivo nei confronti della realtà, basata sulla percezione di autoefficacia dei suoi comportamenti e sulla motivazione a raggiungere gli obiettivi, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni. Orientare il proprio potenziale umano verso scelte consapevoli, commisurate agli strumenti di cui si dispone e alle opportunità che si presentano, genera benessere.

Ma abbiamo anche visto come, anche per chi facilita questo processo, spostare il focus dal Tu al Noi inneschi un processo di trasformazione della relazione, che inevitabilmente lo trasforma.

Parlare di cura, di relazioni, di benessere delle persone nelle organizzazioni non è così scontato, in un momento storico che, a causa della pandemia e della rinnovata bellicosità, ci ha tolto la fiducia nel Noi, relegandoci nell’isolamento del Tu.

E’ allora importante allenare la predisposizione e l’orientamento alla cura dell’altro e tenere costantemente presente – come ci ha ricordato Papa Francesco – che “nessuno si salva da solo”.

Come fare? Provate con questo semplice esercizio di ascolto: quando siete di fronte a qualcuno che vi sta raccontando di sé, provate a non intervenire in alcun modo, mantenendo una postura quieta e uno sguardo amorevole sulla persona che avete di fronte. Provate a dimenticarvi di ciò che pensate che l’altro si aspetti che gli diciate e rimanete, invece, in contatto con la sua energia e le sue emozioni, senza pretendere di dare soluzioni, ma rimanendo semplicemente partecipi spettatori. Provate poi ad annotare se qualcosa è cambiato in voi (e nell’altro).

 

(*) Il presente articolo prende spunto dall’intervento di moderazione svolto dalla sottoscritta in occasione della Tavola Rotonda conclusiva del Convegno “La cura della relazione e la relazione di cura: dialogo tra giuristi, medici e psicoterapeuti” tenutosi a Milano il 25 ottobre 2022 presso l’Università degli Studi di Milano e dalla pubblicazione degli atti del Convegno. Lo trovate  pubblicato in  forma estesa con il titolo Dal Tu al Noi: pratica della cura delle relazioni e processi di cambiamento per le persone e le organizzazioni in A. Maniaci (a cura di), La cura della relazione e la relazione di cura (Dialogo fra giuristi, medici e psicoterapeuti), Pacini Editore, 2023, p. 297 e ss.

 

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Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 3

Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 3

La pratica del respiro consapevole (pranayama) può aiutarci, ad utilizzare meglio la nostra capacità polmonare e a ossigenare il cervello, ma anche a restare in uno stato di presenza, a regolare i flussi di energia e a mantenere l’attenzione focalizzata al raggiungimento dei nostri obiettivi. E molto altro ancora…

Genitori con il cuore

Il respiro è l’essenza della vita: si inspira non appena si viene alla luce e si espira, quando si chiudono gli occhi per l’ultima volta.

Quante volte ci capita durante la giornata di osservarci mentre respiriamo? Probabilmente poche.

Respirare è un atto involontario, ma possiamo renderlo consapevole.

Proviamo a farlo adesso. Mettiamoci in una posizione comoda, con la schiena dritta e chiudiamo gli occhi, concentrando la nostra attenzione sull’aria che entra dalle narici. Non dobbiamo fare nulla per modificare il respiro. Osserviamone semplicemente il flusso. In breve tempo diventerà più lento, come un filo sottile che ci pervade. Osserviamo ora le nostre sensazioni: il battito del cuore piano piano rallenta, le emozioni si placano e uno stato di serenità ci pervade. Oppure potremmo osservare una sensazione di disagio, se non siamo abituati a questo tipo di pratica. Non fa niente, Annotiamo mentalmente quel che succede, senza giudicare.

Dal punto di vista fisiologico, con il controllo del respiro si rende cosciente quel processo inconscio, che inizia nella parte primitiva del cervello (il tronco encefalico) posto alla sommità della spina dorsale e che stimola il diaframma, il principale muscolo responsabile della respirazione.

Il pranayama è l’insieme delle tecniche di regolazione di inspirazione, ritenzione (il periodo tra inspirazione ed espirazione) ed espirazione, attraverso le quali la forza vitale è attivata e regolata e costituisce una parte fondante della pratica yoga.

Infatti il termine sanscrito pranayama è composto da due parole: prana e ayama. Prana significa “forza vitale” e ayama significa “espansione”, quindi pranayama può essere tradotto letteralmente come ”espansione della forza vitale”.

Esistono diverse tecniche yogiche di respirazione che possono essere praticate per migliorare la capacità di regolare e dirigere il nostro prana.

La respirazione yogica completa è la più semplice e si articola in tre fasi che vanno collegate tra loro:

1. Inspiro espandendo l’addome, lasciando gonfiare la pancia come un palloncino usando il diaframma (respirazione addominale).

2. Continuo a inspirare, dilatando la gabbia toracica con l’aiuto dei muscoli intercostali (respirazione toracica).

3. L’aria raggiunge l’apice dei polmoni facendo leggermente alzare le clavicole (respirazione clavicolare).

A ritroso, durante l’espiro abbasso le clavicole, contraggo leggermente il torace e svuoto l’addome.

Altre tecniche più complesse vengono insegnate durante le lezioni di hatha yoga, con l’obiettivo di ottenere un più alto livello di energia fisica, emotiva e spirituale.

Ma c’è di più.

Così come il corpo e la mente sono legati tra loro e la stabilità di uno dipende dall’altro, allo stesso modo il respiro e la mente sono profondamente connessi. In momenti di stress il respiro è, infatti veloce e superficiale, mentre quando la mente è rilassata, anche il respiro è lento e profondo.

Avere maggior controllo del respiro, aiuterà la mente a diventare più stabile e, conseguentemente, a migliorare anche il nostro benessere psichico.

Anche le neuroscienze ci dicono che il fattore che più di ogni altro consente di prevedere salute e felicità sia l’integrazione cerebrale . Ciò significa che il processo di collegamento di aree differenziali del cervello è probabilmente dovuto ad un meccanismo che consente un’ottimizzazione della nostra capacità di autoregolare l’attenzione, le emozioni, il pensiero, il comportamento e le relazioni. E pare ormai dimostrato che le connessioni neuronali possano essere regolate e modificate (si vedano gli studi sul connettoma di Sebastian Seung).

Nel libro Diventare consapevoli Daniel Siegel, docente di Psichiatria presso la University of California School of medicine fornisce suffragi scientifici di ciò che accade ai nostri neuroni quando utilizziamo le potenzialità latenti della mente, anche e soprattutto attraverso il respiro.

Siegel riconosce al training mentale e alle pratiche di consapevolezza (attivati attraverso la meditazione) il fondamento per la creazione di benessere personale e collettivo.

Per migliorare la qualità della nostra vita e della vita delle nostre organizzazioni – dice – dobbiamo imparare ad allenare, attraverso il respiro consapevole, tre capacità:

1. Attenzione focalizzata (= capacità di concentrazione, di evitare le distrazioni o di lasciarle andare, quando arrivano);

2. Consapevolezza aperta (=capacità di ascolto e di rimanere ricettivi verso ciò che accade senza identificarci nei contenuti oggetto della nostra attenzione);

3. Intenzione gentile (= capacità di entrare in relazione compassionevole/amorevole con sé stessi e con gli altri).

Parleremo prossimamente degli effetti benefici delle pratiche di meditazione sul cervello per migliorare l’equilibrio psico-fisico, per aumentare la concentrazione, per sviluppare fiducia e flessibilità.

Per il momento, nell’augurarvi una serena estate, mi limito a darvi un piccolo consiglio: concedetevi qualche momento della giornata in cui portare attenzione al vostro respiro. Vi sentirete subito meglio.

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Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 2

Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 2

La ricerca di un management etico, che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni può essere veicolato anche dai principi del Raja yoga. Oggi ci concentriamo sui precetti del fare (Nyama), per portare un giusto equilibrio tra calma ed energia nel nostro agire professionale, con un occhio di riguardo al tema dell’essenzialità.

Genitori con il cuore

Nutrire la vita spirituale può essere un buon modo per nutrire anche il proprio percorso professionale, soprattutto valorizzando – per sé e per gli altri – quella mission che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare. Abbiamo già anticipato in un precedente post dal titolo “Pillole di spiritualità per il manager di oggi – Step 1” come la ricerca di un management etico, che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni può essere veicolato anche da alcuni suggerimenti provenienti dai principi del Raja yoga, contenuti nel testo sacro, denominato”Yoga Sutra” di Patanjali, secondo il quale i primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, primariamente, sul rispetto dei 5 Yama e dei 5 Niyama .

Abbiamo già parlato degli Yama le “cose da non fare”, mentre i Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

I Nyamas sono cinque e agiscono a livello interiore:

1. Saucha = lavorare sulla pulizia interiore;

2. Santosha = gioiredi quel che si ha

3. Tapas = saper essere essenziali

4. Svadhyaya = dedicarsi allo studio e alla conoscenza di sè

5. Isvara pranidhana = praticare la resa.

 

Vediamoli uno per uno.

In sanscrito la parola Saucha significa purificazione e riguarda la pulizia del corpo, ma non solo.

Per avere un corpo pulito e puro è importante praticare con costanza le asana e nutrirsi con una dieta naturale ed equilibrata. Ma anche liberare la mente da pensieri tossici, così come abituarsi a riconoscere e a disinnescare le credenze limitanti che non ci consentono di entrare in contatto con il nostro potenziale di realizzazione.

Santosha significa capacità di accontentarsi, di saper stare con quel che c’è. Per applicare questo principio alla vita lavorativa il primo passo è capire cosa è superfluo. Una volta individuato ciò di cui non abbiamo bisogno occorre imparare a lasciare andare quel che non serve e a concentrare le energie là dove, come dice S. Covey ne “Le sette regole per avere successo”, possiamo ampliare la nostra sfera di influenza per passare dal management alla leadership di noi stessi.

Si potrebbe obiettare che accontentarsi voglia dire frenare l’ambizione e la prosperità. Ciò può essere vero, solo se confondiamo l’essere contenti con l’essere in fuga dalle proprie responsabilità: se abbiamo paura dell’impegno o del fallimento o non siamo capaci di essere profondamente ingaggiati da quel che facciamo potremmo dichiarare di essere contenti di quel che abbiamo, per paura di cambiare. La vera contentezza non significa pigrizia, ma un giusto equilibrio tra pacatezza ed energia.

Tapas significa austerità e riguarda l’esercizio della forza di volontà, il prefiggersi una meta, anche piccola, da raggiungere con costanza e dedizione. La pratica di Tapas ci insegna ad uscire dalla nostra zona di comfort e ad eliminare i modelli e le abitudini negative che spesso sosteniamo con un notevole dispendio di energie.

Tutti noi abbiamo limiti e condizionamenti che sostengono i nostri schemi mentali: la pratica dello yoga e della meditazione ci aiutano a guardarli senza giudizio e a trasformarli. Secondo la Psicosintesi di R.Assagioli la volontà è una qualità dell’essere umano che non può solo essere legata all’autodisciplina, ma che deve anche essere buona (cioè volta al bene), sapiente (cioè dotata di pensiero strategico) e forte (cioè determinata a trasformare gli impulsi in obiettivi).

Svadhyaya invece significa studio di sé stessi e riguarda il valore che diamo alla conoscenza.

Nella pratica di questo principio è racchiuso anche lo studio dei testi antichi e dei grandi maestri, ma soprattutto significa raccogliere dati di osservazione statistica di quel che siamo e di come reagiamo agli stimoli esterni: quanto siamo realmente in grado di autodeterminarci, quanto ci facciamo influenzare dal contesto, come possiamo valorizzare le nostre qualità? Gli studi sull’intelligenza emotiva ci aiutano a riconoscere, gestire e comunicare correttamente il nostro mondo emozionale, con l’obiettivo di rendere i nostri comportamenti efficaci rispetto al contesto e sostenibili per noi. E ciò è possibile solo grazie ad un continuo allenamento.

Infine Isvara (abbandono) Pranidhana (divino), significa abbandonarsi all’essenza di ciò che è, al Divino.

La nostra interiorità è legata all’esterno da un filo sottile: bisogna imparare ad arrendersi all’esistenza, così com’è, perché nulla accade invano. Ogni esperienza viene per insegnarci qualcosa e sta a noi comprendere la lezione che ci porta per evolvere.

Questa è indubbiamente la pratica più difficile da seguire; siamo così inclini a controllare ogni nostra azione ed il suo risultato che il lasciar andare non è per niente facile. Molti di noi hanno bisogno di “controllo nella vita”, e vivono continue battaglie tra mente ed emozioni.

La pratica consiste nel lasciare continuamente andare e nel non crearsi aspettative, proprio mentre la mente continuerà imperterrita a fare programmi, a chiedere rendiconti e a desiderare risultati.

Ciò non vuol dire, ancora una volta rimanere distaccati e poco coinvolti dal nostro agire.

Anzi, significa agire con il massimo interesse ma disinteressatamente, quasi come se, una volta intrapresa un’azione, i frutti della stessa fossero affidati ad una forza più grande.

E’ l’esperienza, ad esempio, della fiducia, come leva per far funzionare le organizzazioni: una volta messa a disposizione del team occorre lasciarla vivere di vita propria, avendo il coraggio di non interferire.

 

Il nostro cammino procede con altri suggerimenti. Prossimamente parleremo di come usare il respiro per riportare la nostra focalizzazione all’interno, per favorire la concentrazione, per combattere ansia e stress.

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Pillole di spiritualità per il manager di oggi. Step 1

Pillole di spiritualità per il manager di oggi. Step 1

Imparare a fidarsi della propria energia può aiutarci nella realizzazione professionale e condurci lungo un percorso di management etico che porti sostenibilità e benessere nelle organizzazioni.

Genitori con il cuore

Photo by Joshua Earle on Unsplash E’ possibile coniugare management e spiritualità? Di spiritualità se ne parla poco e spesso male, confondendo la spiritualità con la religione o con qualche oscura forma di esoterismo .

Recentemente, invece, un filone americano di studi ha lanciato l’idea di valorizzare il “capitale spirituale” come variabile fondamentale per la produttività delle organizzazioni aziendali e nei luoghi di lavoro.

Noi Occidentali siamo abituati a portare somma attenzione a ciò che succede all’esterno di noi e poca a ciò che succede all’interno. Reputiamo, cioè, maggiormente degno di nota il campo fenomenologico dell’esistenza, a discapito di tutto il mondo interiore, cui tendiamo a rivolgerci solo se soffriamo emotivamente o se cominciamo ad entrare in contatto con alcune aree di vulnerabilità del corpo, dovute all’avanzare dell’età (e quindi alla paura della morte) o alla presenza di malattie.

Chi, come me, ha sperimentato personalmente e professionalmente come yoga e meditazione possano essere uno strumento per portare risorse e consapevolezza nella vita professionale sa bene che non si pratica solo per mantenere il corpo in salute: i benefici si riflettono a livello fisico, ma soprattutto a livello emozionale ed energetico, oltre che spirituale. Praticando yoga ho imparato a fidarmi della mia energia, come veicolo per riportarmi in asse con la mia interiorità, quel nucleo immutabile e non soggetto alle vicissitudini del mondo esterno, che mi ha guidato verso una realizzazione più profonda della mia nota autentica e che mi sta conducendo lungo un percorso di management etico, che possa creare catene di valore umano.

Attraverso la pratica ho imparato a restituire tutto ciò che avevo imparato: rimettere in circolo le energie è diventato per me un tema di ecologia dell’anima.

È stato ed è un grande lavoro, più che altro perché è difficile togliere strati (o viluppi) che impediscono alla consapevolezza di espandersi, ma soprattutto per la difficoltà oggettiva di affrontare questa ricerca interiore, dovendo ogni giorno negoziare spazi e risorse tra le mille incombenze di libera professionista milanese, mamma di 3 figli!! Chi lavora su di sé attraverso pratiche spirituali è (spesso… ma non sempre!) circondato da un’aura di calma interiore, centratura ed equilibrio emotivo, perché entra in contatto con alcuni livelli energetici più sottili. Ma bisogna avere dei validi traghettatori.

Se siete interessati a questo percorso, vi consiglio di avvicinarvi ad alcuni testi della filosofia vedanta che offrono diverse chiavi di lettura, a seconda del livello di approfondimento e di crescita spirituale sostenibile per ciascuno.

Mi riferisco, in particolare, agli Yoga Sutra di Patanjali , testo di incerta datazione (collocabile tra il 600 a.c e il primo secolo d.c.) che raccoglie in 196 brevi aforismi tutti i principi spirituali alla base della filosofia dello yoga e della meditazione.

Secondo Patanjali, la mente razionale non può comprendere la necessità di integrazione di corpo, mente emozioni e anima: infatti egli definisce lo yoga come citta vritti nirodha ovvero la “cessazione delle fluttuazioni della mente”. I primi passi di un ricercatore sincero dovrebbero focalizzarsi, inanzitutto, sul rispetto di alcuni precetti: 5 Yama e 5 Niyama .

Gli Yama possono essere tradotti come “cose da non fare” e sono considerati principi etici che hanno lo scopo di migliorare il comportamento.

Gli Yama sono 5:

Ahimsa (non violenza, non nuocere a sé o agli altri). Pensate a tutte le forme di violenza e di manipolazione soprattutto verbale cui assistiamo quotidianamente nelle nostre relazioni. Valorizzare la gentilezza e l’empatia nelle organizzazioni significa praticare Ahimsa.

Satya (verità, sincerità, autenticità): Quante volte nella comunicazione siamo ispirati a verità e quante invece, la mancanza di sincerità è una difesa che rende difficile la comunicazione e prelude l’ascolto? Praticare Satya significa anche riconoscere le leve che muovono il nostro sistema di credenze e valorizzare la nostra mission nel mondo professionale (è questo il tema della vocazione lavorativa).

Asteya (non rubare). Appropriarsi indebitamente di idee altrui o non riconoscere il valore dei contributi professionali di tutti gli anelli dell’organizzazione è un modo per non praticare Asteya.

Brahmacharya (continenza nella espressione delle energie). Il principio, genericamente riferito all’uso dell’energia sessuale, è invece applicabile a qualunque dispendio energetico che ci allontana dai nostri obiettivi di realizzazione professionale. Pensiamo alla teoria di Covey sulla gestione del tempo e alla necessità di focalizzarsi sulle priorità.

Aparigraha (non avidità nel possedere). Le dinamiche di potere sono la causa della maggior parte dei conflitti all’interno delle organizzazioni, perché generate da una visione ego-centrata della leadership. Passare ad una visione eco-centrata, ovvero orientata a far crescere il sistema nel suo complesso, invece che a nutrire l’ego del leader, è un modo per praticare Aparigraha di cui ci parlano già le teorie sulla leadership ispirazionale come la U-theory di Otto Scharmer.

I Nyama sono invece pratiche di tipo disciplinare che spiegano cosa fare.

Ne parleremo in un prossimo post e, se, avrete la pazienza di seguirmi, scoprirete come nutrire la vita spirituale sia un buon modo per nutrire anche e soprattutto il proprio percorso professionale e come valorizzare per sé e per gli altri quella missione che ciascuno di noi è stato chiamato a incarnare.

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I DONI DEL VIAGGIATORE-Step 7

I DONI DEL VIAGGIATORE-Step 7

Quando si torna da un viaggio si ha voglia di condividere le esperienze vissute e di portare in dono alle persone a cui teniamo oggetti che, simbolicamente, ne testimonino il valore.
Eccoci quindi alla conclusione del percorso in 7 passi alla scoperta del libro THE HEALING HOME-La casa che cura. 7 passi per trasformare la tua casa e la tua vita, scritto con Silvana Citterio e pubblicato con Eifis Editore.

Genitori con il cuore

Dopo aver ascoltato i nostri bisogni (Osservare con consapevolezza – Step 1) e averli analizzati con oggettività e amorevolezza (Casa interiore e casa esteriore – Step 2) abbiamo lasciato andare ciò che non  serviva, per sradicare vecchie abitudini, Ripulire la casa e sbloccare le energie (Step 3). Ciò ha consentito di riscoprire parti o luoghi a lungo rimasti sopiti o nascosti  e di rivitalizzarli  Ritorno al futuro (Step 4).
Solo con un bagaglio leggero può cominciare  il viaggio più importante, quello verso noi stessi, l’unico in grado di attivare la forza di cambiamento e di  Trasformare i buoni propositi in azioni (Step 5).
Ma non esiste viaggio che non produca trasformazione (Ritrovarsi dopo un viaggio – Step 6).
Abbiamo imparato che, quando capiamo la verità su di noi, spesso la vita diventa molto più difficile, prima di migliorare: la trasformazione esige la morte di un vecchio sistema, perché ne possa emergere uno nuovo.

Ora è il momento di concludere il nostro viaggio e di guardarci indietro per osservare quanta strada abbiamo fatto e che persone siamo diventati.
La risposta a questa domanda costituisce probabilmente lo scopo trasformativo di qualunque percorso di crescita personale. Il lavoro di crescita, infatti, consiste nel creare deliberatamente un nuovo modello più affine a noi: è un vestito fatto su misura, di cui posso scegliere le stoffe, la fattura, il colore, così come abbiamo fatto per la nostra casa.
Nella ricerca possiamo prendere spunto anche dagli altri, ma dobbiamo necessariamente partire dalle nostre potenzialità e limiti.
Per capitalizzare il percorso, potrebbe  allora essere utile farsi alcune domande.
Quali sono le mie risorse di adesso?
Questa è la prima domanda da porsi, per connettersi alla nuova forza che abbiamo sentito emergere e in cui abbiamo anche potuto riconoscere la scintilla di una risorsa che già esisteva, ma che faceva fatica a venire alla luce.
Il punto d’attenzione è proprio questo. Valorizzare la risorsa che ci ha consentito di superare le difficoltà significa darsi la possibilità di affrontare altre situazioni difficili e, quindi, sentirsi più forti e consapevoli delle proprie capacità.

In che cosa è consistita la mia trasformazione? Che tipo di persona sono diventato?
Visto che nessuno ha il potere di far cambiare un’altra persona, se questa non lo vuole, quando le cose non funzionano noi abbiamo solo due strade: trasformare noi stessi o trasformare la dinamica di una relazione. E molto spesso lavorando su di noi, automaticamente cambia anche l’equilibrio delle relazioni, cui comunque porteremo nuova linfa con un mutato atteggiamento.

Quali risorse desidero ringraziare per avermi aiutato?
Questa è una domanda particolarmente importante, perché ci consente di riconoscere e alimentare una preziosa qualità di cui spesso fatichiamo a fidarci, la #gratitudine.
Essere grati ad una parte di noi che ci è venuta in soccorso in un momento difficile ci fa stare bene e crea quello schema di pensiero che conforta sul passato e rassicura sul futuro.
Naturalmente potremmo anche trovarci in una parte del percorso in cui contestualmente alle risorse che ci hanno già aiutato possiamo richiamarne di nuove, che vorremmo ci aiutassero adesso.
Del resto ognuno di noi ha una cassetta degli attrezzi ricolma di strumenti preziosi (anche se spesso non ne è consapevole).
L’ultima domanda che dovrei pormi alla fine di un percorso come questo apre la visuale sulla “missione” che ciascuno di noi è chiamato a svolgere in relazione alla sua appartenenza alla comunità, al tessuto sociale, all’organizzazione di cui fa parte.

Con quello che ho imparato posso restituire nuovo valore alla mia comunità?
Uscire da logiche ego-centrate, per entrare in logiche ecosistemiche, può consentire a ciascuno, non solo di sollecitare il suo senso di appartenenza ad un contesto, ma anche di poter fecondamente contribuire all’evoluzione dello stesso.
La risposta a questa domanda è la ragione per cui Silvana ed io abbiamo deciso insieme di scrivere questo libro.
E la narrazione del viaggio è stata essa stessa un nuovo viaggio, alla cui conclusione siamo giunte un anno fa, ma da cui stanno già germogliando nuovi percorsi che, ci auguriamo, possano essere utili a ripartire più forti e più consapevoli di prima.

Restate con noi, vi diremo presto

Photo by Silvana Citterio

IN VIAGGIO VERSO SE STESSI – Step 6

IN VIAGGIO VERSO SE STESSI – Step 6

Nel capitolo 6 del nostro libro THE HEALING HOME – La casa che cura il viaggio è assunto come metafora del processo di trasformazione interiore: si parla di “Viaggio dell’Eroe” come di un #archetipo universale, comune a diverse culture, e rappresentativo del processo di crescita che ogni essere umano si trova a dover affrontare in più momenti della vita.
Simbolicamente possiamo dire di essere tutti eroi in viaggio.

Genitori con il cuore
Continua il percorso in 7 passi alla scoperta del libro THE HEALING HOME-La casa che cura. 7 passi per trasformare la tua casa e la tua vita, scritto con Silvana Citterio e pubblicato con Eifis Editore.
Dopo aver ascoltato i nostri bisogni (Osservare con consapevolezza – Step 1) e averli analizzati con oggettività e amorevolezza (Casa interiore e casa esteriore – Step 2) è giunto il momento di lasciar andare ciò che non  serve, per sradicare vecchie abitudini, Ripulire la casa e sbloccare le energie (Step 3).
Lasciare andare il vecchio, apre spazio al nuovo, alla scoperta consapevole di ciò che ci piace e ci fa vibrare.
Può trattarsi anche di una riscoperta, di parti di sé a lungo rimaste sopite o nascoste, una sorta di Ritorno al futuro (Step 4).
Solo con un bagaglio leggero può cominciare  il viaggio verso se stessi, per ritrovarsi finalmente in contatto con la propria nota autentica e cominciare a Trasformare i buoni propositi in azioni (Step 5).
Non esiste viaggio che non produca trasformazione.
Nel capitolo 6 del nostro libro il Viaggio è assunto come metafora del processo di trasformazione interiore: si parla di Viaggio dell’Eroe come di un archetipo universale, comune a diverse culture e rappresentativo del processo di crescita che ogni essere umano si trova a dover affrontare in più momenti della vita.
Simbolicamente possiamo dire di essere tutti eroi in viaggio.
Non solo. Il viaggio dell’Eroe è un paradigma narrativo, facilmente rintracciabile in molti libri e film.
Il viaggio dell’eroe è un #viaggiointeriore verso le profondità oscure dell’essere, per resuscitare poteri dimenticati e riscoprire parti di sè.
Quando capiamo la verità su noi stessi, spesso la vita diventa molto più difficile, prima di migliorare: la trasformazione esige la morte di un vecchio sistema, perché ne possa emergere uno nuovo.
Il compito fondamentale dell’eroe è trovare un altro modo di vivere e di tornare a raccontarlo.
A fronte di una parte che muore ne rinasce un’altra.
Si esce da una posizione di #dipendenza dalle proprie #credenzelimitanti per rinascere autonomi.
Nelle narrazioni che funzionano, l’eroe non è uguale a se stesso all’inizio e alla fine del viaggio: ha illuminato parti di sé inconsce, che agivano contro di lui e questa consapevolezza ne fa una persona diversa.
Nel processo per divenire esseri umani compiuti, l’eroe incappa sempre in un antagonista, ma se coltiva adeguatamente la fiducia nelle proprie risorse, può trovare – lungo la strada – anche tanti aiutanti.
Tutti i cattivi e tutti gli amici dell’eroe sono dentro di noi. La prova psicologica che tutti noi dobbiamo affrontare è fondere queste parti divise in un’entità completa e equilibrata o, come direbbe la #Psicosintesi, integrare la molteplicità delle nostre parti in un sé unificato e consapevole di se stesso.
 In un racconto ben strutturato (così come nella vita) gli antagonisti sono strategici per la narrazione, perché hanno in sé una parte di luce. Pensiamo ad esempio alla saga di Guerre Stellari, dove il personaggio principale Luke SkyWalker deve scoprire da dove proviene, per dare voce al “lato oscuro della forza” e sublimarla, trasformandola in luce volta al bene.
I contenuti di cui fatichiamo a prendere consapevolezza, se ricacciati nell’oscurità dell’inconscio, si trasformano, infatti, in energia dannosa che ci indebolisce; se portati, invece, alla luce della conoscenza, si polverizzano e ci aiutano a crescere.
Ogni processo evolutivo parte da una visione dicotomica (il buono contro il cattivo) per arrivare ad una sintesi.
Le polarità apparentemente oppositive, che caratterizzano qualsiasi organismo vivente, presente in natura, e qualsiasi relazione diventano allora fisiologici strumenti per garantirne l’evoluzione.
Ed è proprio nella caverna dove abbiamo paura di entrare, che si trova il tesoro che stiamo cercando.
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Photo by Silvana Citterio